Stati Uniti e Medio Oriente

Le buone ragioni della rimozione di Saddam Hussein

La Seconda Guerra del Golfo si è conclusa dieci anni fa, con la vittoria statunitense e la condanna a morte del dittatore Saddam Hussein. Intorno al secondo conflitto tra Stati Uniti e Iraq sono state diffuse teorie fraudolente che, col tempo, sono diventate di senso comune.

La prima di queste riguarda la presunta laicità del regime di Saddam. Sebbene il dittatore iracheno fosse membro del partito Baath, laico e socialista, fece del suo paese una base per le organizzazioni jihadiste, che finanziava lautamente. Fra quanti beneficiarono delle concessioni del regime, ci fu anche Abu Musab al-Zarqawi, che si stabilì in Iraq sei mesi prima dell’invasione statunitense. Saddam, inoltre, dopo che Uday, il suo figlio maggiore, scampò a un attentato, decise di riavvicinarsi alla fede islamica. In preda a un crescente delirio, si autoproclamò profeta dell’Islam e iniziò la costruzione di una faraonica moschea. Quest’ultima avrebbe dovuto ospitare il Corano che fece scrivere col suo sangue.

Un altro mito duro a morire è quello riguardante la presunta stabilità garantita dal baffuto dittatore. Al contrario, Saddam, era un elemento di instabilità perenne: prima con l’invasione del Kuwait e, successivamente, con il generoso sostegno al terrorismo islamico internazionale.

Intorno alla dittatura irachena è stata edificata una narrativa “antimperialista”, che vedrebbe il prospero Iraq opporsi alla rapace finanza occidentale. Si tratta di pura propaganda. Il paese di Saddam conobbe una notevole crescita economica durante gli anni Ottanta, crescita sostenuta anche da capitali americani. Gli investimenti si interruppero quando il dittatore decise di occupare il Kuwait. A causa dell’isolamento internazionale e delle spese stellari per armi e terrorismo, la dittatura accumulò un enorme debito pubblico, che venne parzialmente cancellato su richiesta di USA e UK dopo la rimozione del dittatore.

La vulgata meno credibile e, come prevedibile, di maggiore successo è stata quella relativa alla volontà statunitense di impossessarsi del petrolio iracheno. Diversi Stati occidentali, soprattutto la Francia, pompavano petrolio dall’Iraq. Agli Stati Uniti sarebbe bastato aprire canali diplomatici con Baghdad e allentare le sanzioni per importare greggio a basso costo, invece di spendere miliardi di dollari per un’invasione militare.

I critici dell’intervento americano si concentrano sempre sulla questione delle armi di distruzione di massa. I sospetti sulla presenza di armi chimiche, batteriologiche o nucleari era fondato. Bisogna ricordare che Saddam usò il gas iprite e altri agenti nervini contro la popolazione curda nel 1988, uccidendo così cinquemila persone nei pressi di Halabja. Il bombardamento chimico rientrava nel piano di pulizia etnica messo in atto dalla tirannia baathista contro la popolazione curda.

Dopo la Prima Guerra del Golfo, nel 1991, l’Iraq fu costretto ad abbandonare le armi di distruzione di massa e i missili a medio e lungo raggio. Nel medesimo anno, gli ispettori delle Nazioni Unite incaricati di verificare l’effettivo disarmo iracheno scoprirono diversi programmi militari segreti, uno dei quali avrebbe potuto portare alla costruzione di una bomba atomica in pochi anni, che furono smantellati. Non cessarono i timori per una ripresa dei piani, così le ispezioni proseguirono fino al dicembre 1998, quando Saddam espulse gli ispettori con l’accusa di essere spie statunitensi.

La lotta al terrorismo, lanciata dal presidente Bush junior dopo i fatti dell’Undici settembre, riportò l’Iraq al centro dell’attenzione. La semplice, ma notevolmente trascurata verità, è che l’amministrazione Bush operò sulla base del peggior scenario possibile, ovvero che Saddam Hussein si fosse dotato o si stesse dotando di armi di distruzione di massa. Fu lo stesso dittatore ha confermare i sospetti sul suo regime, attraverso il tronfio rifiuto di nuove ispezioni e i documentati contatti con la Corea del Nord per l’acquisto di plutonio. Quella dell’invasione fu una decisione razionale della coalizione. Dopotutto, l’intelligence tedesca aveva riferito al cancelliere Schröder che Saddam era di nuovo segretamente al lavoro su una bomba atomica e il governo francese disse, pubblicamente, che riteneva che l’Iraq avesse armi di distruzione di massa e persino Hans Blix nutriva sospetti.

Dopo l’invasione, la truppe angloamericane trovarono solo lo scheletro di un programma di armi di distruzione di massa. Alcuni osservatori, incluso James Clapper, sostengono che Saddam abbia trasportato le sue armi di distruzione di massa in Siria per tenerle al sicuro. Clapper, che era a capo della National Imagery and Mapping  Agency durante la guerra, concluse che Saddam aveva “senza dubbio” trasferito le sue armi di distruzione di massa in Siria, utilizzando aerei di linea civili e convogli di camion. Durante la guerra civile siriana, curiosamente, il regime di Assad dimostrò di avere un notevole arsenale chimico.

La suddetta versione viene confermata anche da IntelligenceSummit, gruppo che ha scavato negli archivi sequestrati dagli americani in guerra e che ha prodotto un documento di novemila pagine pubblicato su Loftus Report. Il rapporto spiega che solo un quarto delle armi di distruzione di massa furono demolite sotto la supervisione dell’Onu a seguito della liberazione del Kuwait. Saddam Hussein vendette un altro quarto ai suoi alleati arabi e un altro quarto fu trasferito altrove, probabilmente in Siria, subito prima della guerra, per insistenza dei russi. La parte rimanente, ovvero le strumentazioni e i materiali per le armi atomiche, era ancora in Iraq al tempo dell’invasione. Tutto era ammassato, sostiene il rapporto, in immensi magazzini di cemento subacquei sotto l’Eufrate.

Dunque, Saddam Hussein era un mentitore seriale, inaffidabile e intenzionato a dotarsi di armi di distruzione di massa, che in passato utilizzò nel tentativo di genocidio della popolazione curda (genocidio dell’Anfal).

Infine, i partigiani del dittatore in divisa sostengono che l’Iraq attuale sarebbe più instabile e insicuro. Si tratta, ovviamente, di una menzogna. La guerra ha liberato milioni di iracheni e instaurato una democrazia che, nonostante i settarismi e la corruzione, ha saputo resistere allo Stato Islamico e garantire livelli decenti di sviluppo economico e sociale. Alle loro prime elezioni dopo Saddam, nel 2005, il 75% degli aventi diritto di voto si recò alle urne nonostante la minaccia degli attentati, a riprova del fatto che l’Iraq non necessita di un dittatore per essere governato.

I problemi dell’Iraq odierno non derivano dalla presenza americana, ma dalla sua assenza. La decisione di Obama di ritirarsi frettolosamente ha incoraggiato la penetrazione degli islamisti. Il quadro complessivo, però, non è drammatico. L’intervento americano non fu solo motivato da timori fondati, ma anche benefico. L’Occidente non dovrebbe ritirarsi, bensì tornare a combattere i satrapi musulmani e i terroristi.

 

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