Editoriali

L’azzardo di Netanyahu e le sue incognite

L’accordo ancora in fieri tra Israele e Hamas che dovrebbe essere finalizzato a breve salvo colpi di scena, pare abbia subito una accelerazione dopo la visita in Israele di Steve Witkoff, il nuovo inviato della imminente Amministrazione Trump per il Medio Oriente. Cosa si siano detti esattamente Netanyahu e Witkoff non si sa, ma è trapelato che l’incontro sia stato “teso”.

Una cosa è certa, fattuale, dopo mesi di stallo e a  soli sei giorni del giuramento di Donald Trump alla Casa Bianca che avverrà il 20 di gennaio, per la prima volta appare che l’accordo con Hamas che l’uscente Amministrazione Biden ha fortissimamente voluto ma mai ottenuto, giunga a destinazione e che Joe Biden potrà intestarselo come un successo personale.

Sono note le minacce di Trump rivolte a Hamas, ovvero, che si gli ostaggi non verranno liberati prima del 20 gennaio, in Medio Oriente si scatenerà l’inferno. Al di là dell’abituale retorica tonitruante di Trump, è chiaro che il neo eletto presidente americano non voglia fare sconti alla formazione jihadista salafita. La domanda da porsi è, tuttavia, quanto conviene a Israele siglare un accordo in un momento in cui Hamas è allo stremo, Hezbollah è parzialmente neutralizzato, e lo sponsor di entrambi, l’Iran, si trova nella sua massima fragilità dal 1979 ad oggi?

L’accordo che andrebbe in porto ricalca sostanzialmente l’impianto di quello proposto dall’Amministrazione Biden il maggio scorso, il quale prevedeva un periodo di 42 giorni suddiviso in due fasi durante le quali Hamas libererà 33 degli ostaggi detenuti nella striscia, tra cui le donne e i più bisognosi di cure in cambio di un numero elevato di detenuti palestinesi, inizialmente 1300, ma il numero è da considerarsi ancora ipotetico. Dopo sedici giorni, in cui prevarrà il cessate il fuoco, partirà la seconda fase che prevede sostanzialmente il futuro di Gaza, ovvero il futuro di Hamas e la decisione di Israele in merito. È questo l’aspetto più rilevante dell’intero accordo e che riguarda l’esito finale della guerra, ovvero due fattori essenziali, la presenza di Israele e il suo ruolo all’interno della Striscia e la presenza di Hamas e il suo.

Ci sono fattori che si intersecano e che mutuamente si escludono. Netanyahu ha dichiarato innumerevoli volte, fin dall’inizio della guerra, che non può esserci vittoria se non verrà posto termine al dominio politico-militare di Hamas a Gaza, ma Hamas ha costantemente affermato che il rilascio di tutti gli ostaggi prigionieri a Gaza prevede il ritiro completo delle forze armate israeliane nell’enclave, e dunque, inevitabilmente la sua sussistenza.

È del tutto impensabile che Hamas rilasci tutti gli ostaggi, essi rappresentano la sua assicurazione sulla vita, senza ottenere in cambio la garanzia della sua permanenza a Gaza e il continuare ad avere un ruolo politico nel suo futuro, tuttavia, se Israele, per ottenerne la loro liberazione dovesse acconsentire, avrà perso la guerra, consegnerebbe a se stesso una vittoria dimidiata che rapidamente Hamas si intesterebbe come un risultato della resistenza.

Lo scenario futuro appare incerto e su esso pesa quello che l’Amministrazione Trump deciderà in merito.

Il primo quadriennio di Trump lo ha visto graniticamente a fianco di Israele in chiara opposizione a quello dell’Amministrazione Biden, e ciò lascia ragionevolmente suppore che la postura dell nuova amministrazione non cambi, ma è altresì indubbio che l’accelerazione che sta avendo la finalizzazione dell’accordo con Hamas sia condizionata dalla volontà di Trump di ottenere un risultato favorevole prima del suo ingresso alla Casa Bianca per sottrarne il merito a Biden e affermare che è stato dovuto al suo intervento.

In questa prospettiva si comprende meglio la ragione per la quale Netanyahu ha deciso di portare a casa un accordo con Hamas, per accontentare l’umorale presidente americano, contando sul fatto che ci si trova ancora in una fase parziale, e che una volta che l’Amministrazione Trump sarà in piena carica, lo scenario cambierà e saprà convinere Trump che la sua esortazione a “finire il lavoro” significa che Hamas deve essere sconfitto completamente.

Ci troveremmo dunque, per l’ennesima volta, al cospetto del tatticismo del premier israeliano, della sua consumata abilità a operare su più tavoli, a tenersi aperte varie prospettive, confidando che con Trump si instauri lo stesso sodalizio della sua prima presidenza.

In altre parole, quello che appare come una resa, in realtà sarebbe un altro fondale di teatro da rimuovere appena possibile confidando sull’inattendibilità di Hamas, scommettendo sulla sua incapacità di rispettare i patti e sulla disponibilità di Trump a fare proseguire a Israele la guerra a Gaza a non cercare costantemente di frenarla come ha fatto l’Amministrazione Biden.

Se Netanyahu avrà avuto ragione o torto lo si vedrà velocemente.

 

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