L’attacco con missili e droni che, il 14 settembre scorso, ha colpito gli impianti petroliferi sauditi di Khurais e Abqaiq è da considerarsi un evento che ha cambiato gli equilibri del Medio Oriente sia dal punto di vista militare che da quello politico. Le sue implicazioni si capiranno appieno nel corso dei prossimi mesi. Soprattutto se si verificherà una escalation militare.
Le sue conseguenze politiche, militari e strategiche di fatto lambiscono anche Israele a tutti i livelli.
L’attacco, portata e implicazioni geopolitiche
L’attacco del 14 settembre è stato rivendicato dalle milizie Houti dello Yemen. Le milizie Houti sono milizie sciite alleate dell’Iran, armate e addestrate dai Guardiani della Rivoluzione iraniani e dagli hezbollah libanesi, le quali stanno combattendo una cruenta e sanguinosa guerra che da oltre tre anni sta lacerando lo Yemen. Ritenere che da sole siano riuscite ad organizzare un attacco così complesso e avanzato non è realistico.
Una prima considerazione che si può fare è di natura geografica. Come si evince dalla cartina 1 sottostante, lo Yemen si trova esattamente dalla parte opposta della penisola araba (gli Houti controllano la parte più occidentale dello Yemen, quella che si affaccia sul mar Rosso) rispetto a dove è avvenuto il duplice attacco aereo.
Gli attacchi con missili e droni effettuati dagli Houti fino al 14 settembre si erano limitati a basi militari, aeroporti e città nel sud ovest dell’Arabia Saudita. In nessun caso avevano impiegato oltre 20 tra missili e droni come nell’attacco agli impianti petroliferi di settembre, ma esclusivamente pochi missili o uno o due droni per volta. L’attacco in questione rappresenta un sensibile salto di qualità militare. Il risultato conseguito è di una precisione e coordinazione tali che ha lasciato tutti gli esperti militari increduli e allarmati, anche in Israele.
Con tutta probabilità esso è partito dal sud dell’Iraq. La distanza da coprire è circa la metà rispetto a quella dal confine con lo Yemen controllato dagli Houti. Ormai l’Iraq è di fatto sotto il controllo iraniano sia politicamente che militarmente. Sono numerose le milizie sciite irachene addestrate, armate e alle dirette dipendenze del generale Qassem Suleimani, il generale delle Guardie della Rivoluzione a capo delle Forze al Quds. Suleimani stà agendo contemporaneamente in Iraq e in Siria cercando di far diventare i due paesi delle autentiche “basi di lancio” per attacchi verso l’Arabia Saudita e soprattutto contro Israele. Fin ad oggi Israele è stato l’unico paese che ha avuto il coraggio e la forza di opporsi a questo disegno.
Negli ultimi 4 anni si contano a diverse centinaia i raid dell’aviazione israeliana che hanno colpito basi, depositi e centri di controllo iraniani in Siria. Da alcuni mesi le operazioni si sono spostate in Iraq. Quello che è accaduto in Arabia Saudita – è il timore dell’intelligence israeliana – è che possa ripetersi anche nei confronti di Israele. Si tratta di una lotta contro il tempo.
L’aspetto dell’attacco che più ha sconcertato l’intelligence israeliana è il fatto che si sia realizzato a poche centinaia di chilometri dalla più grande base militare americana al di fuori degli USA, quella di Al-Udeid in Qatar. Non sorprende più di tanto che i sauditi non siano stati in grado di intercettare o solamente di individuare l’attacco (la maggior parte delle difese aeree e dei radar sono concentrati al confine con lo Yemen), ma che la cosa sia sfuggita completamente anche agli americani fa comprendere il livello di sofisticazione e preparazione necessaria – certamente non alla portata degli Houti –che solo un esercito ben preparato e con una consolidata esperienza poteva predisporre. Questo è l’inquietante aspetto militare della vicenda a cui va aggiunto quello politico che è altrettanto rilevante.
La reazione dell’Arabia Saudita è stata passiva e timorosa al cospetto di un attacco che ha avuto conseguenze economiche gigantesche: produzione petrolifera dimezzata per mesi e relativo danno economico valutato in diversi miliardi di dollari, nonchè di immagine. In Medio Oriente apparire timorosi e passivi è considerato il segno della propria irrilevanza e l’Arabia Saudita si è dimostrata un gigante (economico) dai piedi d’argilla (nessuna deterrenza militare).
La mancata risposta saudita avrà molto probabilmente forti ripercussioni tra gli alleati sunniti (EAU, Bahrein, Egitto, Kuwait) alla cui testa l’Arabia Saudita si pone come mosca cocchiera in funzione anti iraniana. La passività saudita avrà inoltre l’effetto di aumentare l’audacia iraniana che non vede reazioni – esclusa quella d’Israele – ai suoi molteplici attacchi tra i quali va ricordato anche l’abbattimento di un drone americano, avvenuto in giugno sopra il Golfo Persico, in acque internazionali.
Proporzionalmente all’aumento delle pressioni economiche dovute alle sanzioni USA, gli iraniani stanno aumentando la pressione militare che, con l’attacco agli impianti petroliferi, ha colpito il cuore economico del grande rivale saudita. A fronte di questo scenario gli Stati Uniti guidati dell’amministrazione Trump stanno reagendo con sconcertante passività. E’ da sottolineare che l’Arabia Saudita non ha accusato apertamente l’Iran per l’aggressione subita e che gli americani si stanno nascondendo dietro a questo atteggiamento pavido, dando ai loro alleati del Golfo una impressione di debolzza e di scarsa affidabilità.
Dopo 8 anni di amministrazione Obama un atteggiamento del genere non potrà che conferire ulteriore prestigio e forza politica a Vladimir Putin che sta diventando rapidamente l’interlocutore privilegiato per le questioni aperte: dalla Siria, alla Libia, al Kurdistan (nel Kurdistan iracheno i maggiori investimenti stranieri sono quelli russi) al difficile rapporto tra la Turchia di Erdogan e l’Iran. Ma soprattutto sta dando una poderosa spinta all’espansionismo iraniano a fronte del progressivo ritiro degli Stati Uniti dalla regione.
Tutto ciò era stato compreso molto bene dall’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, il quale, a giungno, dopo l’abbattimento del drone americano aveva chiesto un intervento militare per arginare l’aggressività iraniana. Il raid aereo contro postazioni militari iraniane venne fermato da Donald Trump adducendo ragioni umanitarie, successivamente John Bolton è stato dimissionato così come era accaduto l’inverno scorso con l’ex generale James Mattis – allora Segretario alla difesa -dopo che Trump aveva annunciato di volere abbandonare il Kurdistan siriano, ritiro poi differito ma che si stà attuando in questi giorni a favore della Turchia.
Difficile non vedere come la passività e l’inerzia americane aumenteranno la bellicosità iraniana in tutta la regione, soprattutto se il mal contento interno dovuto alla pesante situazione economica crescerà con le difficoltà dell’inverno.
Ciò che invece ha appreso Israele dall’attacco del 14 settembre è che deve contare unicamente su se stesso per la propria difesa. La partita con l’Iran, iniziata e portata avanti dal regime iraniano contro lo Stato ebraico, condotta già da alcuni anni con il trasferimento di armi sempre più sofisticate a favore dei terroristi di Hamas e Hezbollah, e proseguita con il programma di installazione di basi e con l’insediamento di milizie in Siria e in Iraq è entrata in una fase critica. Le capacità militari iraniane non sono assolutamente da sottovalutare e l’incapacità americana di accorgersi di un massiccio attacco missilistico a poca distanza da una sua grande base militare lo dimostrano ampiamente. Oggi più che in passato la sicurezza d’Israele passa attraverso la sua intelligence insieme alla sua capacità di prevenire gli attacchi dei nemici.