Al netto del suo benemerito passato, Amnesty International è, oggi, un’organizzazione con vedute ambigue che, sempre più spesso, impiega i «diritti umani» come grimaldello per scardinare le sovranità nazionali e portare avanti una lotta che poco sembra aver a che fare coi diritti dell’uomo. I suoi operatori sembrano lavorare più con intenti politici (anticolonialisti, antisovranisti) che con intenti autenticamente professionali. Sotto il tema dei diritti umani, si può rilevare una ben precisa visione del mondo.
Amnesty International è un’avanguardia del moderno progressismo transnazionale, il cui obiettivo è un ordine mondiale post-nazionale e post-sovrano, retto da un’astrazione giuridica che l’associazione fondata da Benenson chiama «diritto umanitario internazionale». Con questo non si vuole affermare che Amnesty sia priva di autentici difensori dei diritti umani, ma come istituzione si colloca alla sinistra dello spettro politico. Non a caso, sceglie di esercitare la sua pressione maggiore su quegli Stati disinteressati alla formazione di un mondo post-nazionale e scettici nei confronti delle grandi strutture sovranazionali. La nota organizzazione manifesta una inusitata fissazione per Israele, considerato un violatore seriale di diritti umani e un criminale di guerra.
La principale accusa che Amnesty muove nei confronti di Israele ruota attorno alla nozione di risposta «sproporzionata». Trattasi dell’assurda accusa secondo cui i contrattacchi israeliani causerebbero tassi più elevati di vittime e danni alle proprietà maggiori degli attacchi palestinesi.
Questa sarebbe una prova delle violazioni dei diritti umani. In tale argomento, manca il fatto che Hamas e altri gruppi terroristici palestinesi usano abitualmente i propri civili come scudi umani. Postazioni civili come moschee, ospedali e scuole vengono abitualmente utilizzate come depositi di armi e rampe di lancio per i missili. Di questa realtà, gli «eyewitness» di Amnesty non sembrano accorgersi.
Nel corso degli anni, Amnesty International ha propagandato un’immagine deformata di Israele, equiparando le necessarie misure antiterrorismo israeliane in Cisgiordania e a Gaza con le politiche di segregazione dell’apartheid Sudafricana. Promuovendo la finzione contorta, secondo cui i palestinesi sarebbero vittime di violenze coloniali sistematiche. Nel rapporto 2019-20, possiamo leggere: «Israele ha mantenuto il suo blocco illegale sulla Striscia di Gaza, sottoponendo i suoi abitanti a punizioni collettive e intensificando la crisi umanitaria» e più avanti «I soldati israeliani, la polizia e gli ufficiali della Agenzia di sicurezza israeliana hanno continuato a torturare e maltrattare i detenuti palestinesi, compresi i minori, impunemente».
Amnesty non scrive da dove prende queste informazioni, ma è probabile che arrivino da alcune delle ONG palestinesi con cui collabora, il cui obiettivo è la demonizzazione della democrazia israeliana. La nota organizzazione umanitaria presta il fianco a quanti mirano a boicottare Israele e cercare di negargli il diritto all’autodifesa contro gli attacchi terroristici, bollando come «crimine di guerra» o «reazione spropositata» qualsiasi azione militare compiuta dallo Stato Ebraico.
I documenti di Amnesty in merito alle vicende mediorientali sono cronicamente sfavorevoli a Israele in modo ideologico e infondato. L’organizzazione ha sostenuto le manifestazioni palestinesi in memoria della «Nakba» e condannato le azioni militari a difesa della frontiera, omettendo i tentativi dei manifestanti di entrare illegalmente e armati in territorio israeliano.
La vera ragione per cui Israele è così inviso all’organizzazione per la difesa dei diritti umani non si colloca tanto nelle azioni militari del suo esercito, quanto nell’idea di ordine politico che esso incarna. Israele è uno Stato nazionale geloso della sua sovranità, diffidente rispetto ai processi di ruminazione diplomatica delle agenzie globali e animato da una visione eraclitea del mondo, dove il conflitto è fondamento dell’essere. Per questi motivi Amnesty è così sbilanciata a sfavore dello Stato Ebraico, inimicizia più volte sottolineata anche dal Foreign Office britannico.
Per le medesime cause anche gli Stati Uniti d’America finiscono sovente sotto lo sguardo inquisitorio di Amnesty International, che non manca mai di mettere sotto accusa l’«unilateralismo» americano e la tendenza di Washington, soprattutto durante le presidenze repubblicane, a difendere in solitaria la propria sicurezza nazionale, scavalcando le Nazioni Unite.
Fece scalpore, dieci anni fa, la relazione fra Amnesty International e l’associazione «Cageprisoners» di Moazzam Begg, un talebano jihadista catturato in Afghanistan e detenuto nel carcere di Guantánamo. Pur di attaccare il governo statunitense, l’organizzazione per i diritti umani fece causa comune con un islamista. I rapporti tra Amnesty e Begg vennero pesantemente criticati dall’attivista Gita Sahgal, che venne censurata e sospesa dal suo ruolo nell’organizzazione.
Queste posizioni non sorprendono, le ONG come Amnesty International attingono ai sensi di colpa dell’Occidente per il passato coloniale e il razzismo. Prendere di mira Israele e gli Stati Uniti è redditizio e consente di ottenere ampia visibilità. Il posizionamento di Amnesty rispetto a molte e decisive questioni dimostra il suo collocamento a sinistra.
Nelle fasi più accese della crisi migratoria europea, la «candela nel filo spinato» ha impiegato il tema dei diritti umani per negare ai popoli europei il diritto alla sicurezza e alle frontiere. Così facendo, ha, nuovamente, manifestato la sua antipatia ideologica nei confronti dell’Occidente. Non a caso, l’organizzazione è stata finanziata da George Soros, da anni impegnato a plasmare un mondo senza nazioni né confini e amministrato da impersonali autorità globali.