Cosa pensano gli israeliani dell’idea che Israele vinca e i palestinesi perdano?
Si tratta di una idea radicale, molto differente dal vantaggioso assunto cinquantenario di “terra in cambio di pace” che ha paralizzato i governi e monopolizzato la loro attenzione. Secondo questa vecchia idea, mettere insieme in una stanza palestinesi e israeliani li spingerebbe a risolvere le loro controversie. Nell’approssimarsi del 25° anniversario degli accordi di Oslo, sappiamo esattamente com’è andata: gli israeliani hanno concesso concretamente delle terre e i palestinesi li hanno ricompensati con delle false promesse di pace.
In effetti, secondo un sondaggio commissionato dal Middle East Forum e realizzato da Rafi Smith dello Smith Consulting, solo il 33 per cento degli ebrei israeliani ( e circa la metà di coloro che hanno votato per l’attuale governo) crede ancora nella formula “terra in cambio di pace” e circa la stessa percentuale esigua crede ancora nel processo di Oslo. Pertanto, i vecchi metodi non solo hanno fallito, ma sono profondamente impopolari. Da cosa sono stati rimpiazzati?
Un’alternativa potrebbe essere l’iniziativa “Vittoria di Israele” promossa dal Middle East Forum e ciò è ben evidente nel sondaggio condotto. Alla domanda: “Sei d’accordo o meno con l’affermazione secondo la quale sarà possibile raggiungere un accordo di pace con i palestinesi, quando questi ultimi riconosceranno di aver perso la loro guerra contro Israele?” Il 58 per cento si è detto d’accordo. Ciò ha tutta l’aria di una rivoluzione.
Scavando più a fondo, un’identica percentuale del 58 per cento concorda anche sul fatto che “nonostante le numerose vittorie di Israele sui palestinesi, la maggior parte di questi ultimi continua a pensare di poter eliminare lo Stato ebraico di Israele”. Un buon 65 per cento ritiene che “Nessuno dei conflitti militari con i palestinesi ha provocato una vittoria israeliana o un risultato decisivo, e quindi il conflitto israelo-palestinese persiste”. Un numero ancora maggiore, il 70 per cento, sostiene che “è necessario per l’Autorità palestinese riconoscere Israele come Stato ebraico, prima che Israele accetti di proseguire i negoziati con essa”.
E il 77 per cento è pronto, la prossima volta che Hamas attacca da Gaza o Hezbollah dal Libano, a “lasciare che l’Idf vinca”, il che significa approvare il prosieguo delle operazioni militari israeliane finché l’altra parte non riconosca di aver perso. (Questa è una politica non molto attuale dell’Idf che consiste nell’interrompere le operazioni militari non appena l’altra parte accetta il cessate il fuoco.)
Dopo un quarto di secolo di negoziati asimmetrici in cui gli israeliani hanno rinunciato a vantaggi tangibili (la “terra”) in cambio di false promesse (la “pace”), questi risultati dei sondaggi confermano la fame dei cittadini israeliani di verità e coraggio. Circa due terzi della popolazione ritiene che si possa porre la parola fine al conflitto solo abbandonando i negoziati e mostrando invece ai palestinesi che il loro caso è senza speranza.
Ma i leader israeliani hanno paura di rivendicare questa pretesa perché ogni presidente americano da Carter a Obama li ha scoraggiati dall’intraprendere misure coraggiose, insistendo sulla formula “terra in cambio di pace”, screditata ma piacevolmente neutrale. E qui entra in scena Donald Trump. Il sondaggio del Middle East Forum ha posto una domanda su di lui e il 59 per cento del campione di ebrei israeliani ha risposto che “sicuramente è il presidente americano più filo-israeliano di tutti i tempi”.
Come i lettori ben sanno, ho i miei dubbi a riguardo, ritenendo che Trump sia spinto da un progetto anti-Teheran, di cui Israele è solo una piccola parte. Ma l’iniziativa “Vittoria di Israele” offre al presidente un’opportunità ineguagliabile per dimostrare la sua credibilità sionista; se lui consentirà a Israele di conseguire la vittoria, perché lo Stato ebraico e i palestinesi devono andare avanti lasciandosi alle spalle un conflitto noioso e dannoso, avrà realizzato un cambiamento enorme e costruttivo, di cui tutte le parti finiranno per ringraziarlo profusamente.
Traduzione dall’inglese di Angelita La Spada