Continuano, in tutta Italia ed Europa, le manifestazioni a sostegno della Palestina. Se si osservano, da vicino, tali esibizioni pubbliche di odio anti-israeliano e antiamericano, ci si rende subito conto che sono formate, principalmente, da immigrati magrebini e militanti dell’estrema sinistra.
Una simile composizione, oltre a gettare una luce inquietante sulle comunità islamiche installatesi in seno alle società occidentali, certifica l’esistenza di quella che, già nei primi anni Duemila, lo studioso francese Pierre-André Taguieff aveva definito «Islamo-gauchisme», ossia l’alleanza tra l’Islam politico e la sinistra radicale.
Il conflitto israelo-palestinese è oramai stabilmente inquadrato come confronto tra «colonizzatori» bianchi di origine europea e «colonizzati» arabo-musulmani, dunque «neri» o comunque «non-occidentali». Leggere in proposito il commento alle tesi presuntivamente «anticolonialiste» di Ilan Pappé, ideologo di punta del palestinismo.
Chiunque si consideri antirazzista, di conseguenza, non può che schierarsi dalla parte degli arabo-palestinesi, identificati come «oppressi» insieme a tutta una lunga serie di categorie che include gli afroamericani, i clandestini, le donne e le minoranze etniche e sessuali. Gli immigrati musulmani, spesso e volentieri scarsamente integrati, vedono in queste forme di sostegno alla «causa palestinese» un modo per legittimare la loro avversione alla civiltà occidentale. Il secolare jihad islamico contro gli ebrei può essere così presentato come «resistenza» al sionismo, movimento nazionale sorto sul suolo europeo e pertanto intrinsecamente «razzista».
I propagandisti dell’antisionismo, sia islamici che terzomondisti, hanno edificato una retorica vittimistica attorno alla figura del «palestinese», che si è gradualmente confusa con quella del «musulmano», del «migrante» e del «nero». Questo disordine concettuale, capace però di alimentare un immaginario esotico e libertario, ha permesso di articolare l’antisionismo come lotta contro la discriminazione, la xenofobia e il colonialismo.
Negli ultimi anni, almeno dal 2018, la sinistra filopalestinese, fiancheggiata dagli islamisti presenti nelle agenzie delle Nazioni Unite, ha fabbricato il mito della «Nakba», ovvero l’esodo che gli arabi di Palestina si sono autoinflitti all’indomani della fondazione dello Stato d’Israele, reclamizzata come un Olocausto parallelo e speculare a quello subito dagli ebrei per mano nazista.
Si tratta del tentativo, ideologicamente perverso, di sostituire la Nakba alla Shoah nella coscienza occidentale. Si sta facendo strada, soprattutto nelle università, la tesi secondo cui lo sterminio degli ebrei europei altro non sarebbe che «un crimine di bianchi nei confronti dei bianchi». Insomma, una sorta di guerra intestina tra oppressori, a cui dovrà necessariamente subentrare la Nakba, autentico crimine perché inflitto da «bianchi» a «non-bianchi».
Questo nuovo negazionismo, che nasce ancora una volta a sinistra, più sottile di quello promosso da Garaudy e Rassinier, rischia di essere moralmente e politicamente devastante. La Shoah non viene negata, bensì subordinata alla Nakba, affinché questa, col tempo, renda invisibile la prima.
L’intellettuale antisionista Edward Said disse: «I palestinesi sono le vittime delle vittime». I suoi discepoli sono andati ben oltre. Gli israeliani, dunque gli ebrei, sarebbero «oppressori» da sempre, magari meno dei nazisti, ma comunque oppressori. Il neo-negazionsimo si propone di rimettere le cose in ordine.
L’alleanza tra islamisti e sinistre radicali rappresenta il patto Molotov-Ribbentrop del XXI secolo. Una coalizione tenuta insieme dall’odio verso Israele, che altro non è se non l’espressione più immediata e visibile dell’avversione alla modernità occidentale, ridotta al «colonialismo», al «razzismo» e al temuto «capitalismo».
Il rancore contro l’Occidente liberale trova un trait d’union nella mobilitazione antisionista. La demolizione della civiltà occidentale, ebraico-cristiana ma anche illuministica, passa attraverso l’assalto a Israele. Si tratta di un odio esercitato «nel nome dell’Altro»: il Palestinese, il Nero, il Migrante, vale a dire gli idealtipi della martirologia antioccidentale.
In questo ipermercato di vittime, il Palestinese rimane tuttavia la figura nobile per eccellenza, l’improbabile germoglio di tutte le ingiustizie, l’epitome di tutte le oppressioni. Il Palestinese è una finzione ideologica, come per Lenin e i suoi seguaci il Proletariato, capace come quest’ultimo di generare fantasie messianiche: distruggere Israele per salvare il Palestinese, ossia l’Umanità «oppressa».
Una finzione suicida a cui l’Occidente non smette di credere.