Il susseguirsi degli eventi è rapido, frenetico. A seguito delle proteste di piazza contro l’annunciata riforma della giustizia del governo Netanyahu, e del clima minaccioso e ricattatorio fomentato da una opposizione che lo bolla come futuro dittatore, defininendo la riforma liberticida, il Ministro della difesa Yoav Gallant spiega alla nazione che su di essa incombe un rischio sicurezza a causa di una serie di proteste in seno all’esercito (si tratterebbe di un numero imprecisato di riservisti, addetti all’aeronautica e alla cyber sicurezza), e che è dunque necessario, per il bene del paese, fermare la riforma.
Dopo le forti critiche che gli arrivano dall’esecutivo di avere ceduto alla pressione della piazza e di avere lanciato un assist all’opposizione, Netanyahu licenzia il ministro in carica. La mossa infiamma ulteriormente la piazza, l’Histadrut, il maggiore sindacato del paese, annuncia uno sciopero generale. Subito dopo si diffonde rapidamente la voce che Netanyahu annuncerà lo stop alla riforma. Itmar Ben Gvir, Ministro della pubblica sicurezza, dichiara che se ciò avverrà si dimetterà dal’incarico, provocando di fatto la caduta dell’esecutivo.
A Gerusalemme si riuniscono per la prima volta, tardivamente, decine di migliaia di manifestanti a favore della riforma e in sostegno del governo. Passano poche ore e si giunge alla tregua. Lo stop alla riforma ci sarà, per svelenire il clima e creare una finestra di dialogo con l’opposizione, ma durerà al massimo un paio di mesi. Nella sua dichiarazione ufficiale, Netanyahu rimarca che la riforma verrà comunque fatta.
Dunque eccoci alla tregua, a un parziale acquietamento dopo le urla e il furore e la feroce delegittimazione di una parte contro l’altra. Il presidente Herzog telefona a Netanyahu, quindi a Gantz e a Lapid perchè si aprano subito, con le rispettive delegazioni, gli incontri nel tentativo di trovare l’intesa che finora è stata impossibile.
Ora, lo sperpero demagogico della frase “per il bene del paese” che le fazioni politiche contrapposte si intestano a vicenda dovrebbe sostanziarsi nella consapevolezza che sì, è necessario sistemare la casa dalle fondamenta. Non è più possibile fingere che l’esorbitante potere che la Corte Suprema si è autoconferita negli ultimi trent’anni e che l’ha portata progressivamente a costituirsi come un governo ombra, sia un fatto normale. Non è possibile considerare tutti i cittadini israeliani che hanno dato mandato all’esecutivo anche di riformare la giustizia, non abbiano la possibilità di vedere attuata questa riforma.
Sistemare la casa dalle fondamenta significa fare in modo che, finalmente, Israele sia dotato di una Costituzione vera, non di una Costituzione creata dai giudici in base al loro arbitrio, alla presunzione esorbitante di essere i guardani della democrazia. Significa determinarne le condizioni con il più ampio dei consensi, per “il bene del paese”, per un equilibrato e sano funzionamento del suo corpo politico. Questo è quello che occorrerebbe fare, ma potrà essere possibile unicamente a patto che l’opposizione riconosca che una riforma della giustizia non solo è necessaria ma è inderogabile, e che il governo in carica sia disponibile a determinare in modo non soverchiante le prerogative dell’esecutivo.
Nel Regno Unito, la più antica democrazia del pianeta, priva di una Costituzione scritta, le garanzie del Parlamento sono tutelate dalle leggi consolidate e dal quadro di riferimento sovrano della Magna Carta, non sono i giudici a plasmarla ritenendosi messianicamente arbitri della giustizia e della morale. Questo ruolo che Aharon Barak ha assegnato alla funzione giudicante, e di cui la Corte Suprema è impregnata, deve cessare e essere riportato a una funzione più modesta, quella che i giudici hanno in tutte le democrazie. Solo così, l’esecutivo non vedrà più i giudici come nemici da neutralizzare, ma come i funzionari indispensabili per un ordinato ed equilibrato funzionamento dello Stato.