L’approvazione ieri della Risoluzione 2324 da parte dell’ONU, la quale ribadisce l’illegalità degli insediamenti israeliani nella West Bank e intima la completa cessazione di tutte le attività concernenti la loro implementazione, non cambia nulla nella sostanza. La posizione di Israele è nota. Esso considera la presenza ebraica nei territori del tutto legale, così come il diritto di potervi costruire. D’altronde, questo diritto è garantito dal Mandato Britannico per la Palestina il quale venne recepito pienamente dalla Società delle Nazioni e secondo il quale gli ebrei avevano piena legittimità di insediarsi in tutti i territori ad occidente del fiume Giordano.
Sotto questo aspetto è utile ricordare che uno dei principali corpi contundenti giuridici usati all’ONU contro Israele sarebbe la presunta violazione dell’Articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, nello specifico quello che fa riferimento al paragrafo relativo a “Deportazioni, Trasferimenti, Evacuazioni”.
L’articolo stabilisce l’illegalità della deportazione di popolazioni da un territorio conquistato da parte dell’occupante e il trasferimento di popolazioni dal territorio dell’occupante a quello conquistato. Venne scritto avendo bene in mente ciò che accadde in Europa orientale durante la Seconda Guerra Mondiale a opera della potenza occupante nazista. Non avendo mai Israele deportato alcun arabo dai territori della West Bank il problema, evidentemente, è un altro. Ed è, ovviamente, quello degli insediamenti. Anche in questo casi Israele non ha mai trasferito forzatamente alcun cittadino israeliano all’interno della West Bank.
Nel suo articolo Historical Approach to the Issue of Legality of Jewish Settlement Activity, Eugene W. Rostow, uno degli architetti della Risoluzione 442 scrive “La Convenzione è applicabile agli atti di un assegnatario ‘svolti sul territorio di un altro’. La West Bank non è il territorio di un potere assegnatario, ma la parte non allocata del Mandato Britannico. E’ difficile, quindi, vedere come anche la lettura più letteralista della Convenzione possa fare sì che ciò si applichi agli insediamenti ebraici nei territori del Mandato Britannico a occidente del fiume Giordano. Anche se la Convenzione può essere interpretata al fine di prevenire gli insediamenti durante il periodo dell’occupazione, tuttavia essa non può fare nulla di più che sospendere, non porre fine, ai diritti conferiti dal Mandato. Quei diritti possono essere posti a termine solo con il venire in essere e il riconoscimento di un nuovo Stato o l’assorbimento dei territori in uno Stato vecchio”.
Ciò detto, è assolutamente evidente che questa ennesima risoluzione avversa a Israele con l’astensione clamorosa ma attesa, degli Stati Uniti, rappresenta una ritorsione nei confronti del governo di Benjamin Netanyahu e uno schiaffo in faccia a Donald Trump. E’ Ben Rhodes, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale dell’Amministrazione Obama ha dichiararlo senza mezzi termini:
“Prima che questa risoluzione venisse discussa pubblicamente, la prossima amministrazione ha annunciato la propria intenzione di spostare la nostra ambasciata a Gerusalemme. Ritengo che abbiano mandato un messaggio molto chiaro a proposito di quello che sarà il loro approccio a questa questione attraverso la persona che hanno scelto come ambasciatore”. Rhodes si riferisce, naturalmente alla nomina di David Friedman, strenuo difensore della piena legittimità degli insediamenti nella West Bank. Non sorprende dunque che dietro l’ipocrita e irrealistica motivazione addotta da parte americana, sull’utilità di questa ennesima risoluzione avversa a Israele, (la sua presunta utilità per il venire in essere due stati separati), si consumi una meschina vendetta che certifica, se ce ne fosse bisogno, l’infimo livello raggiunto da questa amministrazione uscente relativo alla gestione del conflitto arabo-israeliano.
E’ l’ultimo atto (si spera) di una politica mediorientale disastrosa. Oltre a una Siria devastata in cui l’incapacità americana di gestire il conflitto ha riconsegnato alla Russia un ruolo egemone nella ragione, Barack Obama lascia un Medioriente in cui storici assetti diplomatici ed equilibri consolidati da decenni sono stati capovolti. Uno stato islamico totalitario, pericoloso per tutta la regione e con manifeste ambizioni imperialiste, come l’Iran è stato riabilitato, mentre un alleato storico e democratico come Israele è stato ripetutamente bastonato e messo nell’angolo.
A questo punto quello che occorre fare è chiaro. Si tratta di dare immediatamente seguito all’annuncio fatto dal nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e ribadito dal nuovo ambasciatore americano designato, David Friedman, di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Questa azione dal significato emblematico dirompente, il riconoscimento americano che Israele è la capitale perenne e indivisibile dello Stato ebraico, deve iscriversi in un chiaro sostegno, senza se e senza ma delle ragioni di Israele. Come ha ribadito a questo proposito, Daniel Pipes in una recente intervista a L’Informale, il trasferimento dell’ambasciata deve avere luogo però “nel contesto di volere incoraggiare una vittoria israeliana, altrimenti non vale il disturbo che Washington dovrebbe prendersi la briga di accollarsi”.
Ci auguriamo che l’Amministrazione Trump assuma con decisione e lucidità questo ruolo.