Editoriali

La sovranità in attesa

E’ passata da due giorni la data fatidica del primo luglio, quando, secondo l’annuncio di Benjamin Netanyahu fatto in campagna elettorale e poi più volte ribadito, Israele avrebbe esteso la propria sovranità sul 30% dei territori in Cisgiordania (Giudea e Samaria).

Non si sa ancora nulla di preciso se ciò avverrà, e come avverrà, a tappe sembra di capire, piano piano, senza essere troppo perentori. A Washington, l’amministrazione più favorevole a Israele dal 1948,  prende tempo.

Dall’affermazione che il Piano per la Pace targato Trump, consentiva a Israele di procedere con il vento in poppa, si è poi passati a una doccia fredda, quando il governo Netanyahu-Ganz non aveva visto ancora la luce. Ora che l’ha vista, si attende ulteriormente. Parrebbe che Jared Kushner, genero del presidente americano, messo a sovranintendere per non si sa quale competenza, il più longevo conflitto del dopoguerra, abbia consigliato di frenare.

Nel mentre, la grancassa della propaganda antiisraeliana non ha perso un attimo e ha diffuso urbi et orbi i suoi vetusti mantra. L’estensione di sovranità definita “annessione”, come se Israele fosse la Germania e la Cisgiordania (una sua porzione) la Polonia, viene presentata come una violazione del diritto internazionale (del tutto falso, non esiste alcun testo che stabilisca che la rivendicazione di Israele sui territori non sia legittima, al contrario, ne esiste proprio uno, mai scalzato, il Mandato Britannico per la Palestina del 1922, che questo diritto lo afferma esplicitamente).

La UE, filoaraba da quando si chiamava ancora CEE e che, già nel 1973, anno della crisi petrolifera e della Guerra del Kippur, chiedeva a Israele, sotto ricatto dei paesi del Golfo, di suicidarsi lasciando i territori catturati dagli aggressori nel 1967, prosegue la sua abituale linea, alza la voce, minaccia conseguenze, si schiera praticamente unanime contro lo Stato ebraico. Nulla di nuovo, insomma.

Tutto questo resta sullo sfondo. In realtà ciò che appare in primo piano è la gestione avventata dell’operazione da parte di Netanyahu, troppo giulivamente ardito nell’annunciare un esito la cui riuscita ha delegato interamente al nulla osta americano, ritagliandosi per sè un ruolo da gregario.

Benjamin Netanyahu è il migliore gestore dell’esistente che Israele abbia mai avuto, scaltrissimo politicamente, ma decisionista al lumicino.

Risulta chiaro a tutti che a Washington non ci sono ancora idee del tutto chiare su come procedere, e soprattutto resta muta la voce più importante, quella di Donald Trump. Ha avuto altri pensieri ultimamente, Israele, a cui ha sicuramente concesso tanto, non è, al momento, al primo posto nell’agenda.

Si rimane dunque nell’attesa, con l’impressione netta che l’estensione di sovranità, se ci sarà, sarà poco dirompente, a meno che non vi siano sorprese dell’ultimo minuto.

 

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