Israele e Medio Oriente

La sinistra israeliana e il suo declino

La sinistra israeliana è in declino da lungo tempo. Il Partito Laburista, erede del Mapai di Ben-Gurion e Levi Eshkol, può vantare solo quattro membri alla Knesset su un totale di centoventi eletti. Potrebbero stare, letteralmente, dentro un taxi o una cabina telefonica. 

Il crollo della sinistra israeliana è attribuibile, essenzialmente, a tre fattori: in primo luogo, al disastroso e suicida «processo di pace» di Oslo, che ha rafforzato il terrorismo e minato la sicurezza dello Stato ebraico; in secondo luogo, ai successi economici ottenuti dalla destra con le riforme liberali, che hanno marginalizzato l’istituzione collettivista del kibbutz; infine, alla crescita dell’immigrazione ebraica proveniente dai Paesi dell’ex URSS, elettoralmente orientata in senso conservatore.

Dal 7 ottobre, la sinistra ha avuto un ulteriore tracollo. Secondo Nimrod Nir, psicologo politico dell’Università Ebraica di Gerusalemme, la strage di nove mesi fa «ha causato un crollo completo della vecchia sinistra israeliana». I cittadini d’Israele, stanchi di subire passivamente il terrorismo arabo-musulmano, si sono spostati sempre più a destra, consapevoli dell’impossibilità di una convivenza pacifica col vicino arabo-musulmano. Il Washington Free Beacon ha riportato un’interessante confessione post-7 ottobre di Debbie Sharon, avvocato penalista di Yated ed ex uomo di sinistra: 

«La gente di destra ci aveva avvertito che i palestinesi non la pensano come noi: non gli importa della pace per i loro figli. Gli importa solo di eliminarci. Ma non ci abbiamo creduto. Abbiamo detto: “Sono tutti pazzi. Sono tutti estremisti di destra”». 

Potrebbe sembrare una buona notizia, peccato però che il sistema elettorale israeliano favorisca la proliferazione dei partiti politici, che frammentano l’elettorato di «centrodestra» disperdendolo in una pluralità di gruppi «moderati» come Yesh Atid di Lapid o Tikvah Hadasha di Gideon Sa’ar 

Inoltre, il complesso mediatico-accademico e soprattutto il sistema giudiziario rimangono, saldamente, in mano alla sinistra. La Corte Suprema, saltata a causa della guerra la riforma proposta da Netanyahu, ha mantenuto il suo potere ipertrofico. La recente decisione degli alti giudici di arruolare forzosamente gli studenti ortodossi delle yeshivot è orientata a mettere in crisi la coalizione presieduta da Netanyahu, generando una tensione tra il Likud e i partiti religiosi al governo. 

In Israele, come capita sempre più spesso nelle moderne democrazie, esiste uno scollamento tra il paese «reale», generalmente conservatore, e quello «legale», presidiato dalle forze progressiste; così come tra i ceti popolari e le élite intellettuali e politiche. Una frattura rivelatasi per la prima volta nel 1981, quando, durante un comizio elettorale del Partito Laburista a Tel Aviv, che sperava di sconfiggere il premier uscente Menachem Begin, la star televisiva Dudu Topaz disse: «È un piacere vedere la folla qui, è un piacere vedere che non ci sono chahchahim (termine dispregiativo che allude agli ebrei israeliani di origine mediorientale ) che rovinano le riunioni elettorali. I chahchahim sono a Metzudat Ze’ev (edificio dove ha sede il Likud)».

Oggi, proprio come ieri, i membri progressisti della società si lamentano della «plebe», degli ebrei mediorientali «Mizrahi», dei «coloni» e degli ebrei ortodossi «Haredi», che rifiutano di diventare la merce di scambio del loro demenziale «processo di pace». Ogniqualvolta la «plebe» elegge un governo conservatore, la litania benpensante si fa più intensa: Israele, insistono, si troverebbe allora sull’orlo del fascismo e della teocrazia. Alla destra israeliana non si perdona neanche un decimo di quello che si accetta dalla parte araba, da sempre dedita alla distruzione dello Stato ebraico. 

Da un lato vi sono gli «ebrei di sinistra» della Diaspora e i ricchi progressisti israeliani, attentissimi agli umori del Partito Democratico statunitense; dall’altro gli israeliani «comuni» che ogni giorno rischiano di saltare in aria con l’autobus che li porta a lavoro. 

Mentre i primi, per l’Italia si segnalano, Piero Fassino, Gad Lerner o Emanuele Fiano, scrivono i loro sentiti articoli su come facciano fatica a convivere con un governo che annovera Smotrich e Ben-Gvir tra i suoi ministri, gli israeliani cercano di non farsi sparare lungo la strada che li riporta a casa o di evitare che le loro auto di seconda mano vengano rubate e portate nel territorio controllato dalla «Autorità Palestinese».  

Questo Israele popolare e patriottico, pio e lavoratore, è stanco di sentirsi dire di rimanere in silenzio quando i suoi bambini vengono uccisi, quando il suo bestiame viene rubato, quando i suoi campi e i suoi frutteti, coltivati con fatica, sono ridotti a un oceano di cenere dai palloncini incendiari palestinesi. Questo Israele non sa cosa farsene di un «processo di pace» che gli ha sottratto terra e sicurezza; le sue «relazioni socio-culturali» con gli arabi non assomigliano a quelle auspicate da Lerner o da Ovadia, ma riguardano la crescente violenza di strada arabo-musulmana all’interno della «linea verde». La sua preoccupazione circa i rapporti con l’Amministrazione Biden ruota attorno alla carenza di alloggi a Gerusalemme o in Giudea e Samaria causata dalla pressione diplomatica della Casa Bianca a non ampliare gli «insediamenti».  

Se gli ebrei e gli israeliani progressisti, laici, pacifisti, socialisti, che trascorrono le loro giornate rannicchiati a leggere David Grossman, fossero stati più attenti alle esigenze degli israeliani «normali» e meno intossicati dalla loro ideologia internazionalista, oggi, con tutta probabilità, non avrebbero un Itamar Ben-Gvir al governo. 

I progressisti hanno perso la loro battaglia. Ecco perché così tanti «ebrei di sinistra» sono arrabbiati e indispettiti. A essere minacciata non è la democrazia israeliana, solida come non mai, ma un potere oligarchico consolidato che si vede, per la prima volta, seriamente intaccato. 

 

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