Israele e Medio Oriente

La Shoah e la nascita dello Stato di Israele

«Se Israele venisse distrutto, sarebbe più grave dell’Olocausto nazista. Perché Israele è la mia libertà. Certo, io sono integrato, ma non ho fiducia. Senza Israele mi sento nudo»

(Claude Lanzmann, «Le Monde», 2 giugno 1967)

Il rapporto tra la Shoah e la nascita dello Stato di Israele, in seguito alla Dichiarazione di Indipendenza del 14 maggio 1948, è stato spesso oggetto di imposture da parte della propaganda araba. La tesi più diffusa (anche nel mondo occidentale) utilizza il genocidio quale giustificazione per la nascita dello Stato ebraico o, per dirla in altri termini, considera lo Stato di Israele come una sorta di “risarcimento” dell’Europa nei confronti degli Ebrei sopravvissuti allo sterminio. In questo articolo ci affideremo al lavoro e alle parole dello storico francese Georges Bensoussan, tra i più autorevoli studiosi europei dell’antisemitismo, della Shoah e del Sionismo, per confutare questa mistificazione.

Giova innanzitutto ricordare come l’indipendenza dello Stato di Israele non avvenne né per caso né in maniera inaspettata, ma fu la logica conclusione di un lungo percorso storico, politico, sociale e culturale. Ci limiteremo – tralasciando l’aspetto prettamente storico-politico relativo al Sionismo e alle vicende successive alla fine della Prima Guerra Mondiale – a citare solo alcuni esempi utili a comprendere come esistesse un embrione di Stato Ebraico ben prima che Hitler assumesse la carica di Cancelliere del Reich (1933). Tale “stato in fieri”, definito comunemente Yishuv, vide la nascita delle principali istituzioni politiche, sociali, culturali e militari del futuro Stato di Israele.

Durante la Prima Guerra mondiale era stata creata, per esempio, la cooperativa centrale d’acquisto Hamashbir. Nel 1920 viene fondata la Kupat Holim (Assistenza Medica Nazionale) e nello stesso anno era stata istituita la Histadrut, sindacato-datore di lavoro, che diventerà l’ossatura dello Stato che va formandosi. Sempre nel 1920 viene messa in piedi la terza versione della forza di autodifesa ebraica, Irgun HaHaganah (letteralmente: «Organizzazione di difesa»). I principali quotidiani dello Stato di Israele contemporaneo, a cominciare da «Haaretz», nato nel 1919, erano stati fondati ben prima della Seconda Guerra Mondiale.

Anche molte delle istituzioni culturali oggi presenti in Israele vennero fondate prima ancora che venisse pianificata la “soluzione finale del popolo ebraico”: l’Orchestra Sinfonica Palestinese, per esempio, nacque nel 1936 (composta da 70 Ebrei palestinesi diventerà l’Orchestra Filarmonica di Israele), quattro anni dopo la fondazione de The Palestine Post (dal 1948, e ancora oggi, conosciuto come The Jerusalem Post). Ma ancora una volta affidiamoci alle parole dello storico:

Nel primo dopoguerra, quando l’opera di Ben Yehuda [morto nel 1922, ebbe un ruolo di primo piano nella rinascita dell’ebraico moderno come lingua parlata, ndr] è proseguita dai suoi eredi, tre istituzioni scientifiche dispensano fin da quel momento un insegnamento in ebraico: il Technion, che apre ufficialmente le sue porte ad Haifa nel 1924 [è quasi terminato nel 1914, ma la sua inaugurazione è ritardata, ndr], l’Università Ebraica, inaugurata a Gerusalemme nel 1925 [la prima pietra venne posta nel 1918, ndr], e l’Istituto Weizmann, aperto nel 1934 a Rehovot. Prima della Seconda Guerra mondiale, Tel Aviv, metropoli del Focolare nazionale ebraico, annovera due teatri (Ohel e Habima), che allestiscono spettacoli in ebraico.

La sviluppo del paese che diventerà lo Stato di Israele, anche dal punto di vista urbanistico-architettonico, cominciò ben prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

L’essenziale della rete dei kibbutzim e delle moshavot, diffusi su tutto il territorio, era anteriore al 1948. Con l’eccezione di Tel Aviv, la crescita della popolazione urbana non faceva che rivelare il rinnovamento di città ebraiche del passato. Nel 1940 poi, Tel Aviv era già di gran lunga, davanti a Gerusalemme, la prima metropoli del paese, nonché la sua capitale economica e culturale. I primi quartieri, come i primi caseggiati, erano stati progettati nel 1909, quarant’anni prima dell’indipendenza.

E’ sempre lo storico Bensoussan a ricordare come il primo edificio pubblico nella nuova città di Tel Aviv sia stato non una sinagoga o un edificio militare (come suggerirebbero alcuni sciocchi stereotipi odierni), ma una scuola laica. In definitiva, la nascita dell’ossatura del moderno Stato di Israele avvenne de facto prima ancora che venissero costruiti i primi campi di sterminio in Europa. Ma soprattutto: «Prima della terra e delle armi, la cultura e la lingua sono state l’epicentro dell’avventura sionista».

Ci furono anche le armi. Le basi del moderno esercito israeliano risalgono all’inizio del Novecento: nel 1907 viene fondato a Jaffa il gruppo di autodifesa Bar-Giora (dal nome di uno dei leader della ribellione ebraica degli Ebrei di Giudea contro l’Impero Romano nel I secolo e.v.). Due anni dopo, nel 1909, il gruppo – composto ancora da dilettanti – crea l’organizzazione HaShomer («il guardiano»), che si occuperà della sorveglianza delle coltivazioni agricole ebraiche e della protezione dello Yishuv: «Formato da non più di un centinaio di membri, lo Hashomer partecipa direttamente alla valorizzazione delle terre recentemente acquisite nella valle di Jezreel (Galilea), con lo scopo di far cessare la dipendenza nei confronti delle guardie arabe reclutate fino a quel momento». Durante la Prima Guerra Mondiale si fa largo – Jabotinsky e Trumpeldor ne furono i più strenui sostenitori – la necessità di creare un vero e proprio “battaglione ebraico” da inquadrare nell’esercito britannico: ne saranno costituiti tre, nel 1917, due prima ancora della Dichiarazione Balfour. Finita la Grande Guerra, nel 1920 viene creata la Irgun HaHaganah («Organizzazione di difesa»), in sostituzione dello HaShomer. Non è ancora l’esercito permanente auspicato da Jabotinsky, ma è da qui che nascerà il nucleo del futuro esercito israeliano.

Esiste dunque un legame tra la Shoah e la nascita dello Stato di Israele? Certo che sì, non potrebbe essere altrimenti. Bensoussan:

Si tratta però di un legame negativo, per tre motivi.
Innanzitutto dal punto di vista politico, dal momento che, prima del 1939, il movimento sionista non era riuscito a convincere la maggioranza degli Ebrei a raggiungerlo nel Focolare nazionale in costruzione.
Inoltre dal punto di vista morale, perché lo Yishuv fu incapace di salvare gli Ebrei d’Europa. È rassicurante, passata la bufera, pensare che ne avesse i mezzi: nel 1942 infatti lo Yishuv era a sua volta minacciato di sterminio dall’avanzata dell’Afrika Korps verso l’Egitto. C’è poi la disfatta morale costituita dalla tiepida accoglienza che lo Yishuv e lo Stato di Israele hanno riservato ai sopravvissuti.
Infine c’è l’aspetto demografico, perché la Shoah ha svuotato la riserva umana del sionismo, accentuando una fragilità demografica che pesa fino ad oggi nel conflitto arabo-israeliano. La parte araba del resto non fa mistero del fatto di avere il mezzo per logorare a lungo termine lo Stato di Israele.

 David Ben Gurion, nel 1954, dichiarerà ancora: «Hitler […] ha causato un torto allo Stato di Israele di cui non aveva previsto l’esistenza. […] Lo Stato c’è, ma non ha trovato la nazione che sperava».

 Tra il 1945 e il 1948, 140 navi clandestine tentano di avviare dall’Europa 70.000 rifugiati ebrei verso quello che non è ancora lo Stato di Israele. Nel corso dei combattimenti detti della «guerra di indipendenza» (1948-1949), un terzo dei combattenti del giovane esercito israeliano (Tsahal), nato dalla Haganah, è costituito da sopravvissuti, come anche un terzo dei 6000 morti in battaglia. […] Il nesso tra la Shoah e lo Stato ebraico si incarna dunque in primo luogo in questa presenza massiccia. E questo fino ad oggi, perché nel 2007, oltre ai 240.000 sopravvissuti che vivono nel paese, il 40% degli Israeliani dichiara di avere un «legame diretto con la Shoah».

Dunque, non è vero che Israele nacque come una forma di “risarcimento” dell’Europa – teoria che cancellerebbe in un sol colpo il Sionismo, la sua storia e le sue mille sfaccettature – ma è invece documentato come molti sopravvissuti ai campi di sterminio europei contribuirono, alcuni di loro trovando la morte sul campo di battaglia, all’indipendenza dello Stato Ebraico.

Perché dunque la propaganda araba insiste nel considerare la Shoah alla base della nascita dello Stato di Israele? La risposta è duplice: da un lato rinnova il mito del complotto (europeo, occidentale, inglese, americano, imperialista, ecc.); dall’altro questa teoria salva in parte l’«onore arabo», traumatizzato ancora oggi da quella che viene definita – e ricordata ogni anno con cerimonie solenni – la Nakba («catastrofe»). In estrema sintesi, la “catastrofe” (la nascita di Israele, secondo la propaganda araba) fu imposta dall’esterno a danno degli arabi. E’ ovviamente una teoria che deforma completamente la realtà storico-politica ed il cui schema interpretativo cela un intento negazionista da un duplice punto di vista:

– eliminando il legame tra il popolo ebraico, la terra e la lingua che ne è scaturita, questa retorica occulta il fatto che la spianata delle Moschee è anche il Monte del Tempio. Ci si ricorderà che nel 1929 il solo fatto che gli Ebrei avessero posto delle sedie davanti al Muro occidentale, detto il Muro del Pianto (HaKotel), aveva scatenato la collera dei fedeli musulmani, che vi avevano visto un tentativo di appropriazione dei luoghi santi ebraici. Questa ventata di violenza fu all’origine delle sommosse del 1929: 133 morti tra gli Ebrei, di cui una parte dell’antica comunità di Hebron, uccisi dagli Arabi, e 116 vittime arabe, uccise principalmente dall’esercito inglese;
– occultando la storia della realtà dei dhimmi, condizione precaria degli Ebrei (e dei cristiani) in terra arabo-musulmana. Ben prima del crimine perpetrato in Europa dalla Germania e dai suoi complici, questa condizione quotidiana, segnata dalla restrizione, dalla paura e, nel migliore dei casi, dalla tolleranza, fu uno dei fattori chiave del parziale allineamento della gioventù ebraica d’Oriente al sionismo.

Infine, va sottolineata – oltre all’alleanza del nazionalismo arabo, incluso il leader ante-litteram del palestinismo, il Muftì Amin al-Husseini, con le forze dell’Asse – anche la responsabilità del mondo arabo circa le vittime della Shoah. Il famigerato Libro Bianco del 17 maggio 1939 che chiuse le porte del paese – “non più grande di uno sbadiglio”, secondo un modo di dire yiddish, ma in grado di accogliere centinaia di migliaia di persone – all’immigrazione ebraica, fu il risultato delle pressioni arabe sul governo di Londra. Furono concessi soltanto 75.000 permessi, da distribuire nei cinque anni successivi, al netto degli immigrati illegali intercettati nel frattempo.

Le prime notizie circa l’assassinio di massa in corso in Europa furono accolte nel nascente Stato Ebraico in maniera doppiamente traumatica: alla devastazione per il genocidio in corso si aggiunse l’impotenza.

Dovendo scegliere tra la vergogna di non aver potuto fare (la realtà), e la consapevolezza per non aver voluto (il mito), il Focolare nazionale ebraico sembra aver optato per la colpevolezza. Sentirsi colpevole era infatti ancora un modo per concepirsi capaci di influire sul corso degli avvenimenti, significava obbedire alla mistica sionista dell’azione, mentre la realtà era più prosaica: lo Yishuv fece poco perché poteva fare poco. […] Ammettere la propria debolezza voleva dire riconoscere, almeno ai propri occhi, il fallimento (temporaneo) del proprio movimento. Questo il motivo per cui, fin dal 1942, la Palestina ebraica parla del genocidio al passato.

Negli anni a seguire, con la quasi totale distruzione del giudaismo europeo e la completa scomparsa di quello dei paesi arabi, il rapporto tra lo Stato di Israele e la memoria della Shoah mutò, ampliandosi e consolidandosi. Oggi su ogni cartina in mano ai turisti in visita a Gerusalemme, la capitale di Israele, spiccano tre luoghi su tutti: la memoria dello Yad Vashem – all’ombra del Monte Herzl dove riposano i corpi dei soldati morti in difesa dello Stato Ebraico, dei grandi personaggi di Israele e del Sionismo – la sede ed il simbolo del potere legislativo della Knesset e il luogo più sacro dell’ebraismo, il Muro Occidentale con il soprastante Monte del Tempio. Il processo Eichmann (1961), in particolare, segnò una svolta. Per la prima volta un rappresentante del popolo ebraico poté parlare in sua difesa, senza domandare ad altri, chiedendo giustizia di fronte agli Shoftei Yisrael. Giudici di Israele. Rappresentanti della Legge di un paese che, se ne avesse avuto le possibilità, avrebbe potuto fare ben più che piangere ed onorare le proprie vittime. Avrebbe potuto accoglierle nella loro patria.

Il 27 gennaio, International Holocaust Remembrance Day, è una ricorrenza internazionale in cui si commemorano tutte le vittime dell’Olocausto. Quale sia il significato, in Italia, del Giorno della Memoria, è difficile da comprendere. Gli Ebrei italiani vennero schedati per legge, emarginati, discriminati, derubati dei beni, denunciati ai nazisti, arrestati, umiliati, internati nei campi, infine caricati sui vagoni piombati. Verso la morte. La stragrande maggioranza degli Italiani non fece nulla per tentare di impedire l’assassinio di nostri concittadini. Nessun italiano ha mai pagato per i crimini commessi.

La speranza è che alle commemorazioni e ai discorsi dei politici piangenti facciano seguito scelte politiche coerenti che dimostrino la sincerità e l’utilità di tale ricorrenza. La conoscenza e la comprensione di ciò che è stato. Perché solo ascoltando e leggendo i racconti dei sopravvissuti e capendo gli orrori del passato si possono riconoscere le minacce del presente. Mai più non dovrebbe essere uno slogan, ma una conquista dell’anima.

Tutte le citazioni provengono da G. Bensoussan, Israele, un nome eterno. Lo Stato di Israele, il sionismo e lo sterminio degli Ebrei d’Europa (1933-2007), UTET, Milano 2009.

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