Islam e Islamismo

La sfida della Turchia alla Nato | di Daniel Pipes

In una dichiarazione disarticolata ma importante, l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale H.R. McMaster, nel dicembre 2017, asserì nel corso di una sessione a porte chiuse che la minaccia islamista in passato era stata trattata “in modo miope”: “Non abbiamo prestato abbastanza attenzione a come [l’ideologia islamista] viene promossa nelle associazioni benefiche, nelle madrasse e in altre organizzazioni sociali”. Alludendo al precedente sostegno saudita fornito a istituzioni del genere, McMaster rilevò che invece “ora lo offrono in misura maggiore il Qatar e la Turchia”.

E soffermandosi sulla Turchia, aggiunse: “Molti gruppi islamisti hanno imparato” dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan e dal Partito per la giustizia e lo sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, o AKP), al potere nel paese. I turchi, nelle parole di McMaster, offrono un modello di “azione attraverso la società civile, il settore dell’educazione, la polizia e il sistema giudiziario e anche attraverso l’esercito per consolidare il potere nelle mani di un particolare partito, che è qualcosa che non vorremmo vedere e che purtroppo sta contribuendo ad allontanare la Turchia dall’Occidente”.

I franchi commenti di McMaster hanno generato un certo scetticismo che rompe con i soliti discorsi di Washington che ricordano nostalgicamente la Guerra di Corea, cui fecero seguito decenni di adesione quasi sacra alla NATO, l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico. La sua menzione del fatto che la Turchia si stia allontanando dall’Occidente solleva diversi interrogativi: al di là delle belle parole, quanto è reale l’alleanza della NATO nel 2018? La Turchia dovrebbe continuare a essere un partner della NATO? La NATO ha ancora una missione nell’era post-sovietica? E in caso affermativo, qual è?

La NATO e l’islamismo

Per comprendere la missione della NATO, torniamo alla nascita dell’Alleanza avvenuta il 4 aprile 1949. Il suo Trattato istitutivo firmato a Washington enunciava un chiaro obiettivo: “salvaguardare la libertà dei popoli [degli Stati aderenti al Trattato, N.d.T.], il loro comune retaggio e la loro civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sulla preminenza del diritto”. In altre parole, la NATO tutelava la civiltà occidentale. All’epoca, sì, questo significava allearsi contro il comunismo, pertanto l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord si è focalizzata sulla minaccia sovietica per 42 lunghi anni. Poi, un giorno del 1991, quando l’Unione Sovietica crollò e il Patto di Varsavia si polverizzò, l’Alleanza affrontò una crisi di successo.

Ne seguì un periodo di incertezza esistenziale, durante il quale ci si interrogò sull’esistenza stessa dell’Alleanza e su chi potesse rappresentare una minaccia. (Alla fine, la Russia è tornata a essere un avversario, ma questo non è un argomento che tratteremo in questa sede.) Le risposte più convincenti furono espresse a favore della continuità dell’organizzazione e dell’obiettivo di mobilitare le difese contro la nuova grande minaccia totalitaria: l’islamismo. Fascisti, comunisti e islamisti presentano differenze sostanziali fra loro, ma condividono un sogno comune di utopismo radicale, di plasmare un essere umano superiore che sia dedito al servizio del suo governo.




Il nuovo nemico islamista ha assunto rilevanza globale nel momento in cui il nemico precedente era stato sconfitto, sfatando rapidamente idee fantasiose su un consenso liberale o sulla “fine della storia”. Nel 1977, gli islamisti presero il potere in Bangladesh; nel 1979, in Iran. Sempre nel 1979, il governo dell’Arabia Saudita volse drasticamente lo sguardo al radicalismo. Nel 1989, gli islamisti salirono al potere in Sudan; nel 1996, nella maggior parte dell’Afghanistan.

Durante questo periodo, proliferarono gli attacchi jihadisti ai membri della NATO e soprattutto agli Stati Uniti. Furono circa 800 gli americani che persero la vita a causa della violenza islamista prima dell’11 settembre, con l’attentato al World Trade Center del 1993 che permise di toccare con mano le supreme ambizioni degli islamisti.

Nel 1995, questa minaccia era diventata sufficientemente evidente al punto che il segretario generale della NATO Willy Claes paragonò l’islamismo al nemico storico della sua organizzazione dicendo: “Il fondamentalismo è pericoloso almeno quanto lo era il comunismo”. Dalla fine della  Guerra Fredda, egli aggiunse, “la militanza islamica si è rivelata probabilmente la più grave minaccia all’alleanza della NATO e alla sicurezza dell’Occidente”. Nel 2004, l’ex premier spagnolo José María Aznar fece una dichiarazione simile, asserendo: “Il terrorismo islamico è una nuova minaccia condivisa di carattere globale che pone a rischio l’esistenza stessa dei membri della NATO”. Aznar affermò che l’Alleanza si concentrava sulla lotta contro “il jihadismo islamico e la proliferazione delle armi di distruzione di massa”. Egli non chiedeva altro che “porre la guerra contro il jihadismo islamico al centro della strategia delle forze alleate”.

Pertanto, fin dall’inizio dell’era post-sovietica, dei leader perspicaci auspicarono che la NATO focalizzasse l’attenzione sull’islamismo, la nuova principale minaccia posta alla civiltà occidentale.

La minaccia islamista

Due paesi allora simboleggiavano questa minaccia: l’Afghanistan e la Turchia. Essi rappresentavano, rispettivamente, sfide senza precedenti esterne ed interne alla NATO.

L’art. 5 del Trattato istitutivo della NATO, l’importante clausola che parla di “difesa collettiva”, non fu invocato per la prima e unica volta durante la crisi dei missili a Cuba o durante la guerra del Vietnam, ma soltanto il giorno dopo l’attacco dell’11 settembre. Per enfatizzare: non furono i comunisti sovietici, cinesi, nord-coreani, vietnamiti o cubani, ma al-Qaeda e i talebani che si nascondevano nelle caverne di un paese marginale (l’Afghanistan), a indurre uno Stato membro a compiere questo importante passo. E questo perché gli islamisti, e non i comunisti, osarono colpire i centri di potere americani a New York City e Washington D.C. .

Inoltre, al-Qaeda e i talebani non sono che una piccola parte del movimento jihadista globale. La proliferazione nucleare iraniana, che ora segue un percorso legittimo per la costruzione di bombe entro dieci anni, rappresenta il problema più letale, soprattutto se si aggiunge il regime apocalittico che governa a Teheran e la possibilità di un attacco a impulsi elettromagnetici.

Gli attacchi su piccola scala comportano minori rischi, ma sono quelli che si verificano costantemente, da una moschea in Egitto a un ponte di Londra fino a un caffè di Sydney. Le insurrezioni islamiste hanno scatenato guerre civili (in Mali, Libia, Yemen e Siria) e semicivili (in Nigeria, Somalia, Iraq e in Afghanistan). Per cinque mesi, un gruppo affiliato all’Isis ha occupato la città di Marawi nelle Filippine. Attacchi jihadisti hanno luogo in paesi che non sono membri della NATO, a maggiorana o meno musulmana, come l’Argentina, la Svezia, la Russia, Israele, l’India, Myanmar (Birmania), la Tailandia e la Cina.

I jihadisti hanno inoltre colpito molti paesi membri della NATO, compresi gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, la Spagna, la Francia, i Paesi Bassi, la Germania, la Danimarca e la Bulgaria. Al di là della debilitazione politica e del terrore, questi attentati hanno gravemente compromesso le capacità militari riducendo l’addestramento e distogliendo fino al 40 per cento delle forze militari attive dalla loro missione principale, impiegandole piuttosto in attività che rientrano nelle funzioni proprie della polizia – per proteggere sinagoghe, scuole e stazioni di polizia.

E poi c’è la Turchia.


Una Turchia dittatoriale, antioccidentale e anti-NATO

Ai bei vecchi tempi, la NATO garantiva alla Turchia sicurezza, soprattutto contro l’Unione Sovietica; a sua volta, la Turchia offriva all’Alleanza un prezioso fianco meridionale. Anche oggi, la Turchia possiede il secondo esercito più grande della NATO, esercito che unitamente a quello statunitense conta 3,4 milioni di effettivi su una forza di 7,4 milioni di personale militare in servizio effettivo; insieme, i due paesi contribuiscono per il 46 per cento sul totale delle truppe messe a disposizione dai 29 Paesi alleati.

Ma molto è cambiato con la vittoria parlamentare dell’AKP del novembre 2002. Subito dopo questa vittoria, Erdogan dichiarò che “la Turchia non è un paese dove prevale l’Islam moderato” e ha mantenuto questa promessa, con il governo che sponsorizza scuole islamiche, disciplina i rapporti tra uomini e donne, il consumo di alcool, la costruzione delle moschee e che cerca più in generale di allevare una “generazione pia”.

Il governo di Erdogan ha attinto alla natura dispotica dell’islamismo: ha manipolato le elezioni, ha arrestato i giornalisti dissidenti muovendo loro accuse di terrorismo, ha creato un esercito privato, il SADAT, ha lasciato che la polizia praticasse torture e ha organizzato un golpe. Riguardo a quest’ultimo punto occorre dire che il presunto colpo di Stato del luglio 2016 ha dato al governo l’opportunità di trattenere, arrestare o licenziare oltre 200 mila turchi, chiudere circa 130 agenzie di stampa e incarcerare 81 giornalisti. Il Comitato di protezione dei giornalisti ha definito la Turchia “la più grande prigione al mondo per giornalisti”.

Senza che nessuno se ne accorga, nel sudest della Turchia imperversa una guerra semi-civile, mentre Erdogan accontenta i suoi nuovi alleati nazionalisti turchi cercando di eliminare l’uso della lingua curda, di cancellare la cultura curda e le aspirazioni politiche curde. La paura si diffonde e il totalitarismo incombe.

I problemi diretti della NATO con la Turchia sono iniziati il 1° marzo 2003, quando il parlamento dominato dall’AKP negò alle forze americane l’accesso allo spazio aereo turco per condurre la guerra contro Saddam Hussein.

Il governo turco minaccia di invadere l’Europa con i profughi siriani. Ostacola le relazioni della NATO con stretti alleati come l’Austria, Cipro e Israele. Si è fatto promotore di un cambiamento di atteggiamento dell’opinione pubblica turca nei confronti dell’Occidente, in particolare contro Stati Uniti e Germania. A dimostrazione di questa ostilità, il sindaco di Ankara, Melih Gokcek, ha scritto un tweet, nel settembre 2017, in cui diceva di aver pregato affinché Allah inviasse ulteriori calamità naturali dopo che due grossi uragani, Harvey e Irma, avevano devastato parti degli Stati Uniti.

Ankara ha preso tedeschi e americani in ostaggio per esercitare pressioni politiche. Deniz Yucel, un giornalista tedesco di origine turca, è stato incarcerato per un anno finché il governo tedesco non ha approvato la modernizzazione dei carri armati turchi. Peter Steudtner, un attivista tedesco per i diritti umani, ha trascorso diversi mesi in prigione. Andrew Brunson, un pastore protestante, è l’ostaggio americano più illustre, ma ce ne sono altri, come Ismail Kul, un docente di chimica, suo fratello Mustafa e Serkan Golge, un fisico della NASA.

Andando sul personale, io (e molti altri analisti di Turchia) non posso nemmeno fare scalo aereo a Istanbul  per paura di essere arrestato e sbattuto in prigione, fungendo da ostaggio da scambiare con qualche reale o immaginario criminale turco negli Stati Uniti. Pensate un po’, la Turchia, un presunto alleato, è l’unico paese al mondo in cui temo di essere arrestato al mio arrivo.

I dissidenti turchi in Germania sono stati assassinati o temono di esserlo, come Yuksel Koc, co-presidente del Congresso della società democratica dei curdi in Europa. Inoltre, sostenitori del governo turco hanno aggredito nel 2016 dei cittadini americani negli Stati Uniti davanti alla Brookings Institution, e nel quartiere di Sheridan Circle, a Washington, davanti all’ambasciata della Turchia, nel 2017.

Il governo turco si schiera con Teheran in vari modi: ha aiutato il programma nucleare iraniano, ha contribuito allo sviluppo dei giacimenti petroliferi iraniani, ha favorito il trasferimento di armi iraniane a Hezbollah e ha dato il suo appoggio a Hamas. Il capo di Stato maggiore dell’esercito iraniano si è recato in visita ad Ankara, forse per sviluppare uno sforzo congiunto contro i curdi. Ankara ha partecipato ai colloqui di Astana insieme all’Iran e alla Russia per decidere il destino della Siria.

Erdogan ha quasi aderito all’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione che, sebbene sia un po’ una imitazione è la cosa più simile a una controparte russo-cinese della NATO. Le truppe turche hanno compiuto esercitazioni militari congiunte con l’esercito cinese e con quello russo. In particolare, le forze armate turche utilizzano il sistema missilistico antiaereo russo S-400, il che è un’azione decisamente incompatibile con l’adesione alla NATO.

E poi c’è l’Esercito dell’Egeo. Yigit Bulut, capo consigliere del presidente Erdogan ha dichiarato nel febbraio 2018 che la Turchia ha bisogno di una forza armata “potenziata da jet da combattimento russo-cinesi perché un giorno [il governo americano] (…) potrebbe benissimo prendere in considerazione l’ipotesi di attaccare la Turchia”. Non sono proprio questi, si potrebbe osservare, i sentimenti di un alleato.

E se questo sembrerà cospirativamente strano, la possibilità esiste, al momento della stesura di questo scritto, di uno scontro tra forze turche e americane nella città siriana di Manbij. Le tensioni hanno raggiunto un punto tale che in base a una dichiarazione della Casa Bianca, il presidente Trump “ha esortato la Turchia a essere cauta, evitando qualsiasi azione che possa generare il rischio di un conflitto tra le forze turche e americane”.

La Turchia snatura la NATO

Oltre alla sua ostilità, la presenza della Turchia nella NATO distorce l’Alleanza. La NATO dovrebbe occuparsi della lotta all’islamismo. Ma se gli islamisti sono già al suo interno, cosa farà l’Alleanza?

Questo dilemma è diventato di dominio pubblico nel luglio 2009, con la fine del mandato del segretario generale Jaap de Hoop Scheffer. Esisteva un consenso sul fatto che il nuovo segretario generale dovesse essere il premier danese Anders Fogh Rasmussen già dal 2006. In altre parole, quest’ultimo era primo ministro del paese durante la crisi delle vignette danesi del 2005. Quando i governi di paesi a maggioranza musulmana, compreso quello turco, lo spinsero a prendere provvedimenti contro le vignette satiriche, Rasmussen affermò molto correttamente: “Sono il premier di un paese libero e moderno, non posso dire ai giornali cosa pubblicare o meno, è loro responsabilità”. Si rifiutò persino di incontrare una delegazione di ambasciatori dei paesi a maggioranza musulmana.

Tre anni dopo, tuttavia, con la candidatura di Rasmussen a segretario generale della NATO, il governo turco disse la sua. L’allora primo ministro Erdogan, rammentando la crisi delle vignette satiriche, affermò: “Ho chiesto un incontro dei leader islamici [in Danimarca] per spiegare cosa sta succedendo e lui si è rifiutato di farlo, quindi come può contribuire alla pace?” Ne seguì molta negoziazione che terminò con un compromesso: Rasmussen fu nominato segretario generale, a condizione che tranquillizzasse pubblicamente Erdogan, cosa che lui fece: “Elaborerò un programma di sensibilizzazione ben preciso a favore del mondo musulmano, per assicurare la cooperazione e intensificare il dialogo. Considero la Turchia un alleato molto importante e un partner strategico e collaborerò nel tentativo di assicurare la migliore cooperazione con il mondo islamico”. Parole che tradotte dal burocratese suonerebbero così: “Non farei nulla che possa turbare il primo ministro della Turchia”.

Ciò ovviamente, non mostrava una NATO forte alla guida della lotta contro l’Islam radicale, ma una istituzione ostacolata dall’interno e incapace di contrastare la principale minaccia strategica per paura di offendere un governo membro. Ho assistito personalmente a questo quando una  delegazione presso l’Assemblea parlamentare della NATO ha abbandonato una conferenza organizzata dall’organizzazione che dirigo, per rispetto verso i propri membri turchi.

Cosa fare

La NATO si trova dinanzi a un dilemma e a una scelta: espellere la Turchia, come io sostengo, o mantenerla nell’organizzazione, così come vuole la propensione istituzionale. La mia tesi è motivata dal fatto che la Turchia intraprende iniziative ostili alla NATO, non è un alleato e ostacola la necessaria attenzione da prestare all’islamismo. In breve, la Turchia è il primo paese membro a passare nel campo nemico, dove rimarrà probabilmente per molto tempo.

La tesi favorevole alla presenza della Turchia nella NATO si riduce alla motivazione che, pur essendo la Turchia sotto Erdogan ribelle, l’adesione alla NATO consente un minimo di influenza su Ankara fino a quando essa non rientrerà nei ranghi, come farà alla fine. Oppure, come sostiene Steven Cook: “La Turchia continuerà a essere importante non tanto perché può essere utile, quanto a causa dei problemi che Ankara può creare”.

Pertanto, qual è la priorità maggiore? Che la NATO adempia liberamente alla propria missione? Oppure che mantenga la propria influenza su Ankara? Tutto dipende da quanto a lungo la Turchia continuerà a essere islamista, dittatoriale e assumerà i connotati di stato canaglia. Vedendo l’ampio consenso anti-occidentale in Turchia, vorrei che la NATO sia libera di essere la NATO.

Gli analisti (compreso il sottoscritto nel 2009) che concordano con questa conclusione a volte dicono di “buttare fuori la Turchia”; ma la NATO non ha un meccanismo di espulsione, perché nel 1949 nessuno poteva immaginare l’attuale problema. Detto questo, si possono compiere numerosi passi per ridimensionare le relazioni con Ankara e sminuire il ruolo della Turchia in seno alla NATO.

Abbandonare la base aerea di Incirlik. Ankara limita capricciosamente l’accesso a Incirlik (inducendo le truppe tedesche al ritiro) e la base è pericolosamente vicina alla Siria, la zona di guerra più attiva e più rischiosa al mondo. Esistono molti siti alternativi, ad esempio, in Romania e in Giordania. Secondo alcune testimonianze, questo processo è già iniziato.

Rimuovere le armi nucleari americane. A Incirlik sono custodite una cinquantina di bombe nucleari: andrebbero rimosse immediatamente. Questa vestigia della Guerra Fredda non ha alcun senso da un punto di vista militare perché, secondo quanto riferito, gli aerei di stanza a Incirlik non possono nemmeno caricare queste armi. Peggio ancora, è ipotizzabile che il governo del Paese ospitante possa confiscare queste armi.

Annullare le vendite di armi. Il Congresso americano ha ignorato una decisione del 2017 del ramo esecutivo, respingendo una proposta di vendita di  armi personali in risposta alla condotta da bulli tenuta dai turchi a Washington. E cosa ancor più importante, la vendita di caccia F-35, gli aerei da combattimento più avanzati dell’arsenale americano, deve essere bloccata.




Ignorare l’art. 5 o altre richiese di aiuto. L’aggressione turca non deve trascinare i membri della NATO in una guerra a causa dei curdi, e questo punto è stato messo bene in chiaro. In risposta, Erdogan punzecchia la NATO a beneficio dei suoi sostenitori, affermando: “Ehi NATO, dove sei? Abbiamo risposto alle richieste in Afghanistan, in Somalia e nei Balcani, e ora prendo io la decisione, andiamo in Siria. Perché non vieni?”

Allontanare la NATO dall’esercito turco. Smettere di condividere le attività di intelligence, non addestrare il personale turco ed escludere la partecipazione turca allo sviluppo delle armi.

Aiutare gli oppositori della Turchia. Stare dalla parte dei curdi siriani. Sostenere la crescente alleanza tra la Grecia, Cipro e Israele. Cooperare con l’Austria.

In breve, i comunisti non hanno mai provocato l’attivazione dell’art. 5 della NATO e nessun membro dell’Alleanza Atlantica è mai entrato nel Patto di Varsavia. L’islamismo, incarnato da al-Qaeda e da Erdogan, ha distorto le vecchie verità, fino a renderle irriconoscibili, richiedendo un pensiero nuovo e creativo. La NATO deve rendersi conto di tali problemi.

Aggiornamento del 13 marzo 2018: Confermando il modello di appeasement, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha dichiarato oggi che la Turchia continua a essere “un alleato prezioso della NATO” perché “contribuisce alla nostra sicurezza collettiva, alle missioni e alle operazioni in molti modi. Ringrazio la Turchia per questo”. E ha proseguito dicendo:

“La NATO fornisce sostegno alla Turchia. Abbiamo missioni, presenze militari in Turchia. Abbiamo i nostri aerei di sorveglianza AWACS, che sorvolano la Turchia e l’aiutano. Abbiamo anche batterie di difesa aerea chiamate SAMP/T, fornite da Spagna e Italia. Siamo grati alla Turchia per il sostegno alla NATO. Dimostriamo inoltre solidarietà verso la Turchia con la presenza militare della NATO nel paese, presenza militare che è aumentata negli ultimi anni alla luce dell’instabilità e delle minacce che la Turchia sta affrontando dal sud, da parte di Daesh, del terrorismo, soprattutto in Iraq e in Siria”.

Traduzione in italiano di Angelita La Spada

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