Israele e Medio Oriente

La risata di Sinwar

La procura di Stato israeliana con una petizione rivolta alla Corte del lavoro chiede di pronunciarsi contro lo sciopero generale indetto dalla principale organizzazione sindacale del paese, per farle dichiarare che esso non è uno sciopero indetto per questioni inerenti al lavoro, ma unicamente per ragioni politiche, quello che con ogni evidenza è.

A seguito della morte dei sei ostaggi rinvenuti dall’IDF a Gaza, si è deciso di incrementare ulteriormente le proteste contro il governo in carica le quali hanno per bersaglio principale Benjamin Netanyahu.

La tesi contro Netanyahu è semplice; è la sua intransigenza, non quella di Hamas che blocca l’esito dei negoziati per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi rimanenti, è Netanyahu e non Yahya Sinwar, l’architetto del 7 ottobre di sangue e stupri, il responsabile della loro morte.

Questa tesi aberrante è la stessa che è condivisa da Hamas. Khalil al-Hayya, membro del politburo dell’organizzazione terrorista lo ha dichiarato esplicitamente, Hamas è pronto ad accettare l’accordo, ma Netanyahu lo ostacola. E in che modo lo ostacolerebbe? Ribadendo che l’IDF non può, per ragioni fondamentali di sicurezza, abbandonare il presidio cdel corridoio Filadelfia ai confini con l’Egitto, lo snodo principale che in questi anni ha permesso a Hamas di fare entrare armi e rinforzi a Gaza.

In altre parole, siccome Netanyahu non vuole permettere a Hamas, con la complicità dell’Egitto, di avere un vantaggio strategico rilevante, i terroristi, cioè i responsabili del 7 ottobre, lo accusano di volere fare fallire le trattative.

Ma il problema non è questo, il problema è che tale tesi è condivisa da alti funzionari dell’esercito, dal capo dello Shin Bet, dal ministro della Difesa Gallant e da quelle famiglie degli ostaggi, non tutte, che Daniel Pipes, qui su queste pagine, ha definito giustamente la “lobby degli ostaggi”.

Il dolore, anzi lo strazio dei parenti dei rapiti, è più che comprensibile, ma non è accettabile che esso sia diventato, come di fatto è, un mezzo del tutto strumentale per attaccare Netanyahu, per esercitare su di lui una pressione costante affinchè accetti alle condizioni di Hamas l’accordo per il cessate il fuoco, quell’accordo che l’Amministrazione Biden cerca in tutti i modi di forzare.

E, a questo proposito, c’è da mettere in luce quella che è una saldatura strutturale tra la Casa Bianca, la lobby degli ostaggi, i partiti dell’opposizione e parti consistenti dell’esercito e dei Servizi, per colpire Netanyahu, costringendolo alla resa.

A marzo appare sulla scena il rapporto annuale dell’intelligence americana sulle minacce alla sicurezza degli Stati Uniti, dove è scritto che a Washington si aspettano in Israele “grandi proteste che chiedono le sue (di Netanyahu) dimissioni e nuove elezioni”. Il rapporto esplicita che la maggioranza degli israeliani “sostengono la distruzione di Hamas”, tuttavia l’aumento dei civili morti ha fatto aumentare la disaffezione nei confronti di Netanyahu, inoltre, “Israele dovrà affrontare una dura resistenza armata di Hamas negli anni a venire e che faticherà a distruggere l’organizzazione terroristica”.

Finora le proteste interne contro Netanyahu sono state minime, nulla di paragonabile alle proteste “spontanee” contro la riforma della giustizia, che per nove mesi hanno agitato il paese, tuttavia, con preveggenza il rapporto indica che esse saranno grandi. Spontaneamente grandi, come quella di ieri a Tel Aviv. Da Washington il futuro si vede chiaramente.

Quello che sta accadendo è evidente, basta solo mettere insieme i pezzi: a due mesi dalle elezioni presidenziali americane, gli uomini dell’Amministrazione Biden, i numerosi funzionari che hanno già servito nell’Amministrazione Obama, e molti dei quali, secondo le indiscrezioni, serviranno in una eventuale Amministrazione Harris, vogliono che Israele accetti le condizioni di Hamas, vogliono che Israele ceda, sostenedo che non si tratterebbe di un cedimento, che dopo che Israele avrà sguarnito la sua presenza a Gaza, potrà, se lo riterrà, tornare a combattere. È ciò che affermano diversi militari israeliani, è ciò che si vuole fare credere, l’importante è fare i fretta, è portare a casa gli ostaggi rimasti vivi, poi, dopo, si vedrà.

Washington, la piazza, la lobby degli ostaggi, pezzi di esercito e dei Servizi, una opposizione molto bene organizzata, i megafoni dei principali canali televisivi israeliani, no nessun complotto, una ben precisa strategia, in superficie.

Nel mentre, nascosto a Gaza, al riparo, circondato dagli ostaggi che gli fanno da scudo umano, Yahya Sinwar ride.

 

 

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