L’immagine di Donald Trump in raccoglimento al Muro del Pianto resterà sicuramente negli annali come quella del primo presidente degli Stati Uniti in carica che si reca nel luogo più sacro per l’ebraismo. E’ stato un bel momento, ma non possiamo fermarci qui.
La realtà incalza e la politica le deve stare dietro.
Prima di essere eletto, su Israele Trump aveva idee incerte relativamente a cosa si dovesse fare. Risultava equidistante e nebuloso, poi avvenne la svolta e alla conferenza dell’AIPAC a marzo fece un discorso di totale appoggio allo Stato ebraico in cui promise che, una volta diventato presidente, uno dei suoi primi gesti sarebbe stato quello di ricollocare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Ma poi le cose sono cambiate.
La realtà incalza e la politica le deve stare dietro.
Lo scorso marzo, quando Trump ricevette Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca dichiarò tra la sorpresa dei presenti che la soluzione dei due stati, il feticcio di tutte le amministrazioni americane dal ’67 in poi, non era necessariamente quella favorita, e questo fece gridare di giubilo in molti, convinti che egli l’avesse definitivamente seppellita. L’entusiasmo gioca brutti scherzi. Ma poi le cose sono cambiate.
La realtà incalza e la politica le deve stare dietro.
Chi, nella destra israeliana pensava che Donald Trump sarebbe stato il presidente della svolta pro-insediamenti, vedi alla voce Naftali Bennet, al punto che con lui si sarebbe forse anche potuto annettere l’Area C in Cisgiordania, ha cominciato a ricredersi quando dalla Casa Bianca hanno iniziato ad arrivare comunicati che invitavano alla moderazione e alla prudenza. Per dirla in romanesco, l’esortazione a stare boni.
Ai primi di maggio Abu Mazen venne ricevuto anche lui alla Casa Bianca, e l’incontro fu insolitamente cordiale, dopotutto, per più di un mese successivamente alla sua elezione a presidente, Trump non si era mai fatto sentire con l’Autorità Palestinese, tanto che a Ramallah si cominciava a pensare che effettivamente, dopo le carezze elargite da Barack Obama, era arrivato il momento dei secchi d’acqua fredda. Invece no. Abu Mazen e la delegazione palestinese al suo seguito a Washington hanno avuto modo di ricredersi piacevolmente.
La realtà incalza e la politica le deve stare dietro.
Cosa è accaduto? Nulla di sconvolgente. Si è trattato di uno shift politico prevedibile, soprattutto dopo l’arrivo del generale McMaster nella stanza dei bottoni come Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Uomo pragmatico e poco incline agli estremismi ha riorientato Trump verso la direzione consolidata della politica americana. Dunque, per quanto concerne Israele, si tratterà di rimettere in moto l’arrugginita macchina dei negoziati per una pace sempre più sfuggente a cui, in Israele, tra le vecchie volpi della politica, primo fra tutti Netanyahu, nessuno crede. Ma questo è l’orientamento attuale e si fa buon viso a cattivo gioco. Lo scenario non ammette strappi o mosse improvvide. L’ambasciata americana, per il momento, resterà dove si trova. Scontentare gli arabi non è opportuno, soprattutto ora che a Riad si sono fatti ottimi affari (380 miliardi di commesse) e sponsorizzano i sauditi come possibili partner per la pace.
La realtà incalza e la politica le deve stare dietro.
Su questo giornale, recentemente, Daniel Pipes, uno dei maggiori analisti internazionali della realtà mediorientale, con l’abituale realismo che lo connota, ha commentato così a proposito di Trump e Israele, “Si possono supporre scenari in cui da un atteggiamento molto amichevole nei confronti di Israele potrebbe passare a un atteggiamento molto ostile con tutto quello che c’è in mezzo. Se devo fare una previsione, mi aspetto una moderata ostilità”.
Dopo le fanfare, gli abbracci e i sorrisi, le fotografie e le abituali dichiarazioni di amicizia, il corso delle cose riprende il suo abbrivio. La foto di Trump al Muro del Pianto resta un bel ricordo, nel frattempo la realtà incalza e la politica le deve stare dietro.