Editoriali

La realtà che incalza e le menzogne della propaganda

La cosiddetta marcia pacifica organizzata a Gaza in nome del diritto al ritorno dei palestinesi, in parole povere tutti i discendenti dei palestinesi che lasciarono la Palestina come conseguenza della Guerra del 1948, circa cinque milioni, il che significherebbe, ovviamente, la fine dello Stato ebraico, non è altro che una prova generale. La prova generale per il Nakba Day, ovvero il giorno della “catastrofe” per la nascita di Israele. Quel giorno sarà il 15 di maggio, quando, secondo il calendario, l’Amministrazione Trump forse nella persona stessa del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, inaugurerà l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

In merito ai rifugiati, al diritto del ritorno e alla nakba, occorre dire alcune cose.

“La degiudaizzazione della nazione israeliana attraverso il ritorno in massa dei rifugiati è ancora oggi all’ordine del giorno, ha scritto Pierre André Taguieff. Questa e non altra, infatti, è la ragione principale per la quale dal 1948 in poi i rifugiati arabi-palestinesi sono stati mantenuti tali in campi profughi dagli stati arabi limitrofi mentre nessuno dei profughi ebrei (820,00 circa) espulsi dagli arabi dall’Egitto, dall’Iraq, dalla Libia, dalla Siria, dallo Yemen, dall’Algeria, tra il 1948 e il 1972 si è trovato in una situazione analoga essendo stati tutti assimilati dall’Europa, dagli Stati Uniti e da Israele, che da solo ne ha assorbiti ben 586,000.




Nel novembre del 1975, l’ONU istituì il Committe for the Exercise of the Inalienable Rights of the Palestinian People, (CEIRPP) il quale ha avuto nel corso degli anni come suo scopo principale quello di promuovere il rimpiazzo di Israele con uno stato palestinese. Il Comitato, tra le altre iniziative, avrebbe provveduto a perorare uno dei cavalli di battaglia (e vero e proprio cavallo di Troia) dell’offensiva araba contro Israele, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi della guerra del 1948, diritto esteso non solo ai sopravvissuti della guerra ancora in vita all’epoca, ma anche a tutti i loro discendenti. Uno caso al mondo, quello dei rifugiati arabi palestinesi, in cui lo statuto di rifugiato si eredita per discendenza.

La vittimologia palestinese, categoria fondamentale all’interno del conflitto arabo-israeliano è uno strumento decisivo della propaganda antisionista. Si parte, naturalmente dalla Guerra di Indipendenza del ’48-’49 e dal numero di palestinesi, tra 600,000 e 700,000 che lasciarono la Palestina come conseguenza del conflitto. L’esodo sarà trasformato post factum dalla narrativa palestinese nella Nakba, e attribuito indiscriminatamente alla “pulizia etnica” da parte dell’esercito israeliano. Questa narrativa martirologica è consustanziale a quella del sionismo come impresa colonialista tesa a dispossessare un popolo autoctono dalla sua terra originaria. La realtà è ben altra rispetto alla mitologia fondata dalla propaganda.

Non ci fu nessuna pulizia etnica, a meno che non si intenda qualcosa di diverso da ciò che la definizione significa, la sistematica evacuazione o eliminazione di una popolazione dal territorio nel quale risiedeva da parte di un altro popolo o etnia. Curioso caso quello di un paese appena nato il cui esercito provvede a “pulirlo etnicamente” da coloro i quali diventeranno poi un quinto dell’attuale popolazione risiedente. Quello che accadde fu in realtà un combinato di vari fattori, intimazione da parte degli stati arabi rivolti alla popolazione palestinese di lasciare le proprie abitazioni in attesa di un prossimo ritorno dopo che Israele fosse stato sconfitto, abbandono volontario e anche, necessariamente, evacuazione forzata da parte dell’esercito israeliano. Nonostante ciò la Nakba è stata istituzionalizzata e presentata come un esempio oggettivo della violenza ebraica. Naturalmente, se il nascente stato ebraico fosse stato distrutto dagli eserciti arabi e tutti gli ebrei sterminati, come era dichiarato intento dei comandi militari arabi dell’epoca, non ci sarebbe alcuna Nakba da celebrare e lo sterminio degli ebrei in Medioriente si sarebbe trasformato, come era già nelle intenzioni di Amin al Husseini, in una appendice della Shoah da commemorare qui in Occidente a occhi lucidi.




Veniamo ai nostri giorni. Ci sono già almeno sette vittime palestinesi, uomini che si sono avvicinati troppo alla barriera di confine tra l’enclave costiera di Gaza e il territorio israeliano. Lo hanno fatto consapevolmente e a loro rischio e pericolo. Israele aveva preventivamente avvisato di non oltrepassare il perimetro consentito, 700 metri dal confine. Naturalmente sono già partiti i titoli criminalizzanti dei soliti giornali di area progressista. L’Huffington Post titola, ISRAELE SPARA SULLA MARCIA PALESTINESE, e Repubblica, che non si fa mai mancare nulla, titola SALE LA TENSIONE A GAZA. CINQUE PALESTINESI UCCISI DALL’ESERCITO ISRAELIANO. CENTINAIA DI FERITI.

Altri titoli verranno. Non abbiamo da stupirci. La demonizzazione non perde colpi. Nemmeno uno. Non può. Ma intanto la storia si muove. Verso altri lidi. La causa palestinese è un cadavere ambulante mantenuto in vita in Medioriente solo dall’Iran e, ovviamente, in Occidente dall’Europa.

L’amministrazione Trump ha fatto saltare i vecchi parametri americani di oggettivo appoggio all’Autorità Palestinese. Sono stati tagliati i fondi all’UNRWA e sospesi quelli all’Autorità Palestinese fintato che non cesserà di pagare, con i soldi dei contribuenti americani, i terroristi. Gerusalemme è stata dichiarata capitale di Israele con il consenso degli stati arabi, Arabia Saudita in testa, i quali si sono limitati a protestate solo ritualmente. Ma la demonizzazione persiste. E’ normale. Cinquanta anni indefessi di propaganda contro Israele non cessano da un momento all’altro. Cesseranno solo quando la realtà obbligherà gli arabi-palestinesi a riconoscere che hanno perso, che Israele non si autodissolverà e che dovranno accettare le condizioni poste agli sconfitti, come è sempre stato per chi perde una guerra da parte della potenza vincitrice.

Spetterà a Israele assumere con determinazione questo ruolo.

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