Alle 4 e 25 di sabato un drone iraniano entra nello spazio aereo israeliano e viene di seguito abbattuto nei pressi della cittadina di Bet Shean nella Valle del Giordano da un elicottero Apache del 113 squadrone. Il drone proveniva da una base iraniana localizzata presso Palmira, in Siria. A seguito dell’abbattimento del drone l’aviazione israeliana entra in azione e colpisce l’obbiettivo iraniano distruggendolo. Di ritorno dall’operazione uno dei due F-16 israeliani viene colpito dalla risposta della contraerea siriana. E’ la prima volta dall’Operazione Mare di Galilea del 1982 che un aereo israeliano viene abbattuto.
L’abbattimento dell’F-16 diventa subito occasione ghiotta da parte della propaganda di Teheran per annunciare che sarebbe terminata l’era delle incursioni aree israeliane. La realtà si è incaricata di smentire immediatamente l’affermazione fatta, visto che la risposta israeliana è stata un raid aereo sulla Siria di notevole impatto, il quale ha annientato 12 obbiettivi, 4 dei quali erano basi iraniane, mentre i restanti 8 erano batterie antimissili e basi militari, una delle quali appartenente alla 104esima divisione area siriana. Come risposta alla “fine dell’era delle incursioni aeree israeliane” non è male.
A seguito dell’attacco, il generale Tomer Bar dell’IAF (Israel Air Forces) ha dichiarato “Si è trattato del maggiore e più significativo attacco dall’epoca dell’Operazione Pace per la Galilea“ durante il quale l’IAF distrusse 19 batterie siriane terra-aria.
Quanto è accaduto mette in luce chiaramente due cose: il tentativo provocatorio da parte dell’Iran di allargare il proprio perimetro di azione e l’immediata azione controffensiva israeliana a seguito dell’abbattimento dell’F-16. La risposta di Israele non è altro che la messa in pratica di ciò che Benjamin Netanyahu ha più volte ribadito a Vladimir Putin, il cui ruolo di alleato dell’Iran e del regime di Assad è fondamentale per definire gli equilibri di potere in Siria. E ciò che il primo ministro israeliano ha messo sempre in chiaro con il suo ambiguo interlocutore russo, l’ultima volta solo dieci giorni prima di quanto accaduto, è che ci sono precise linee rosse di confine che Israele non può permettere che vengano superate. La posta in gioco riguarda il tentativo iraniano di insediare le proprie basi in Siria, posizionandosi ai confini delle Alture del Golan e, al contempo di equipaggiare Hezbollah di ulteriori armamenti. Israele sa benissimo che le la Russia fornisce armi all’Iran e a Hezbollah, ma sa anche che Putin non ha alcun interesse a che si arrivi a uno scontro diretto tra l’Iran e Israele, ne andrebbe del consolidamento russo nella regione, un obbiettivo troppo importante per potere essere messo a repentaglio.
Al di là del trofeo simbolico dell’F-16 abbattuto, a Teheran e ad Assad il messaggio è arrivato chiaro e netto, laddove si spingono troppo oltre il consentito, malgrado la protezione russa, Israele interviene, come è costantemente intervenuto in questi anni con operazioni sul terreno siriano mirate a colpire obbiettivi considerati pericolosi per la propria sicurezza.
Si tratta di uno scenario assai mobile e retto da equilibri precari il quale è in continuo sommovimento tellurico. Quanto sia in grado la Russia di moderare l’hubris iraniana è cosa tutta da vedere. Gli interessi russi di posizionamento strategico in Siria non coincidono con quelli espansionistici di Teheran e con l’intenzione della Repubblica Islamica di consolidarvi una propria posizione di vantaggio, la quale, se venisse in essere, diventerebbe oggettivamente un problema serio per la sicurezza dello Stato ebraico. Per ora, dopo l’episodio di sabato, la situazione sembra tornata alla calma, ma nessuno si nasconde che si tratta di una pausa solo momentanea.