Dal nostro inviato in Israele, Niram Ferretti
I Salomon hanno fatto entrare dalla porta di ingresso Omar al Abed, il ragazzo di 19 anni che a breve, come una belva, avrebbe infierito su di loro con un coltello. Era uno Shabbat speciale, in cui la famiglia riunita in casa nell’insediamento di Halamish celebrava la nascita di un nuovo nipote. Lo hanno fatto entrare credendo che venisse a celebrare con loro, l’assassino, “la bestia umana imbevuta da un odio aberrante”, come lo ha definito Benjamin Netanyahu. Così è giunto, dalla porta, fiduciosamente fatto entrare, l’assassino che si sentiva martire di Allah e che era lì per giustiziare gli ebrei, colpevoli, nel suo delirio, di volere sottrarre agli arabi la moschea di Al Aqsa. Perché Yosef Salomon, 70 anni, il capofamiglia, sua figlia Chaya Salomon, 46 anni, e suo figlio Elad Salomon, 36 anni, sono morti a causa del clima di questi giorni, la grande tensione provocata dalla collocazione a Gerusalemme di metal detectors davanti all’ingresso che, della Porta dei Leoni, conduce al Monte del Tempio-Nobile Santuario. Dietro questa strage c’è l’incitamento arabo-musulmano, la chiamata alla difesa della moschea ritenuta in pericolo, così come avvenne già nel 2015, quando il “moderato” Abu Mazen, in un discorso esaltato, invocò lo spargimento di sangue “puro” musulmano per difendere la moschea dagli ebrei impuri. Fu subito ubbidito da un piccolo esercito estemporaneo di accoltellatori, tutti giovanissimi, che continuano ancora oggi la loro opera di macelleria.
Abu Mazen, il “moderato” che ha spavaldamente e grottescamente dichiarato poco prima di questo episodio, per il quale non ha ancora speso alcuna parola di condanna, di volere congelare ogni rapporto di collaborazione con Israele nei territori, lui che sopravvive nel suo feudo solo in virtù della protezione che Israele gli fornisce.
Avrebbe potuto andare peggio a casa dei “coloni” Salomon, avrebbe potuto essere un massacro invece di una strage, se la moglie di Elad Salomon non avesse rapidamente chiuso a chiave in una stanza i bambini che erano presenti. Già, i “coloni”, così definiti da buona parte della stampa per rimarcare non solo in ossequio alla correttezza lessicale il fatto che vivano negli insediamenti, ma per sottolinearne la presunta natura abusiva, illegittima. Perché i circa quattrocentomila ebrei che vivono nei territori considerati “occupati”, gli stessi territori che il Mandato Britannico per la Palestina del 1922, fatto proprio dalla Lega delle Nazioni, assegnava agli ebrei per potervi legittimamente risiedere (e ad oggi nessuna risoluzione ONU ha potuto di fatto abrogare la validità giuridica di questo documento), secondo una vulgata fraudolenta non dovrebbero trovarsi lì. E non dovrebbero trovarsi “lì” gli ebrei che vivono a Gerusalemme Est, la capitale storica di Israele, che recentemente l’UNESCO ha assegnato simbolicamente ai musulmani, compreso il Muro Occidentale e il Monte del Tempio. E non dovrebbero trovarsi “lì” in nessun punto della Palestina, come appare dalle mappe sulle quali studiano i bambini palestinesi e come dichiara esplicitamente Hamas nella sua Carta Programmatica del 1989, recentemente ritoccata in “meglio” (non sarebbero più gli ebrei i nemici dell’umanità ma i perfidi sionisti).
Il gesto di ospitalità della famiglia Salomon a Halamish, in Giudea e Samaria, questi i nomi biblici, ebraici, della West Bank, iscritti in una storia antecedente di millenni a quella sì colonizzatrice ed espropriatrice musulmana, si è trasformato, nel giorno di Shabbat, in un bagno di sangue, nello strazio di nuovi morti causati da menzogne, viltà, complicità. Sono cinquanta anni che Israele ne fa le spese. Nulla di nuovo sotto il sole.