Titolo da poema cavalleresco quello dell’ultimo libro di Vittorio Robiati Bendaud, Il viaggio e l’ardimento. Si tratta di nove prose in cui fatti e personaggi reali si mischiano con altri partoriti dalla fantasia dell’autore che, in questo modo, compone delle miniature di vita, o meglio di peripezia ebraica dal Medioevo ai nostri giorni, di cui l’Italia e le Marche, con alcuni sconfinamenti, compongono la geografia essenziale.
Ma di quale viaggio parliamo e in che cosa consiste l’ardimento? Il viaggio è topos inseparabile della letteratura, da quello per i mari di Odisseo, a quello sotterraneo e celestiale di Dante, a quelli di Don Chisciotte e Sancho Panza, ai swiftiani viaggi di Gulliver, per giungere a più recenti viaggi al termine della notte. Ma il viaggio è anche esperienza così profondamente ebraica, dal viaggio da Ur dei Caldei per la terra promessa imposto da Dio ad Abramo, padre della fede e dei patriarchi (e che Bendaud pone a inzio e fine libro come suggello), primo sradicamento che ne prefigurerà altri ben più dolorosi, a quelli dell’erranza, che tra accoglienza e rigetto hanno associato alla figura dell’ebreo il movimento lungo i secoli.
Si muovono molto le figure disegnate da Bendaud con destrezza briosa, anche quando tratta di fatti drammatici e tragici. Sono tutti personaggi fuori dal comune: Immanuel da Roma (Manoello) letterato fine e peregrino per l’Italia, che probabilmente a Verona conobbe Dante, Estellina Conat, la prima stampatrice ebrea, Amato Lusitano, medico e botanico, Mosheh Basola, tra i più autorevoli rabbini italiani del XVI secolo, Rav. Giuseppe Laras, che dell’autore è stato maestro, e altri. Intorno a loro interagiscono altre figure non meno suggestive. I personaggi entrano ed escono come dalle quinte di un teatro, e non so se Bendaud avesse in mente nello scrivere il suo libro, un altro consolidato topos letterario, quello della vita come palcoscenico, che è qui ben presente e rende la lettura godibile come una rappresentazione scenica.
L’ardimento, invece è quello delle imprese compiute, del coraggio e della perseveranza in mezzo alle avversità, è la volontà e l’acribia di non cedere mai alla disperazione ma il continuo impegnarsi e rinnovarsi. Quando, in finale di libro, come in una favola esopiana, una rodine che aveva dialogato con Abramo all’inizio, ritrovandolo peregrinante per Camerino, gli chiede «Ma, Abramo, perché tutto questo? Qual è il perché delle storie della tua gente che ho sentito raccontare, alcune delle quali ti riguardano di persona?, il patriarca le risponde, «Godi del tuo cibo e gusta il tuo tempo, rondinella. Tieni a mente che, con ogni probabilità, tutte queste storie, assieme a molte altre ancora, serviranno per ricostruire. Mai demordere, mai perdere la speranza», vediamo emergere forse la cifra più profonda e segreta di questo testo.
Ricostruire ciò che è infranto e sparpagliato, l’intreccio dei destini, il loro accavallarsi. Dentro il tortuoso e confuso itinerario della storia, in questo caso della storia ebraica, di un suo prezioso frammento, ogni personaggio raccontato da Bendaud pone la pietra dell’edificio di cui è parte.