“Andrà tutto bene”.
Yonathan Netanyahu, lettera a Bruria, 29 giugno 1979
“Concedi agli occhi di vedere: nella luce poi facci anche perire”
Omero, Iliade, Libro XVII
Ieri a Milano alla Sinagoga Maggiore è stata presentata la versione italiana delle lettere di Yonathan Netanyahu, edita dal raffinato editore maceratese liberilibri. Alla presentazione sono intervenuti, Iddo Netanyahu, fratello di Yonathan e dell’attuale Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Michele Silenzi giovane scrittore e traduttore del testo, il quale ne ha anche scritto l’introduzione, Antonia Arslan e Nicola Porro.
Il nome di Yonathan Netanyahu è alonato di leggenda. In lui risplendono la virtù del soldato che onora il proprio paese, l’umiltà del combattente che è tutt’uno con i propri uomini, il coraggio e la visione chiara delle cose. Le sue lettere tracciano il ritratto di un giovane intellettuale inquieto eppure sicuro di sé, profondamente ancorato al suolo come Anteo. Questo suolo non è stato mai altro che quello di Israele.
Il 27 giugno del 1976 il volo 139 dell’Air France diretto a Tel Aviv e facente scalo ad Atene venne dirottato da due dirottatori palestinesi appartenenti al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e da due membri dell’organizzazione rivoluzionaria tedesca di estrema sinistra Revolutionäre Zellen solidale con la causa palestinese, e fatto atterrare ad Entebbe, in Uganda. Qui, il 3 luglio del 1976, dopo vari tentativi diplomatici falliti, avrà luogo la più celebre operazione di salvataggio dell’intelligence israeliana organizzata per liberare i 106 ostaggi rimasti nelle mani dei terroristi, di cui, 103 verranno portati in salvo. Il comandante dell’unità di forza speciale Sayeret Matkal era Yonathan Netanyahu, il quale, a causa delle ferite riportate durante l’operazione avrebbe perso la vita.
Le lettere raccolte nel volume coprono un arco che va dal 1963, quando il diciassettenne Yonathan insieme ai suoi due fratelli più giovani e ai genitori si era trasferito per un periodo negli Stati Uniti, al 1976, l’anno della morte. Leggerle non è solo entrare in contatto con un’intelligenza viva e profonda, con una disarmante capacità di analizzare la realtà in modo diretto e preciso, con una qualità di scrittura di icastica precisione, ma è soprattutto fare esperienza di una adesione senza tentennamenti nei confronti dell’oggetto del proprio amore, Israele.
In fondo è di questo che tutte queste lettere, indirizzate di volta in volta ai genitori, agli amici, ai fratelli, alle donne della vita, parlano. Di un amore stabile, costante, e dell’inamovibile fedeltà a questo sentimento. Senza esaltazioni, sdilinquimenti, ma con una adesione inevitabile. La vita di Yonathan Netanyahu, dagli studi universitari negli Stati Uniti al progressivo coinvolgimento nell’esercito, servendo il quale morirà a soli trent’anni, sembra seguire inesorabilmente un tracciato, una chiamata ineludibile. Israele è questa chiamata, (“Desidero ardentemente ritornare”, scriverà all’amico Koshe in una lettera dagli Stati Uniti del 1963), è questo impegno a cui è impossibile sottrarsi.
La cosa affascinante è la sobrietà con cui tutto ciò è reso manifesto. La sobrietà espressiva è la cifra di Yonathan, ma, allo stesso tempo, attraverso di essa, si avverte pienamente una costante tensione spirituale tesa come la corda di un violino. La freddezza, il distacco, sono completamente, impossibilmente assenti. Solo un amore in cui la passione è governata dalla ragione può giungere a immedesimarsi in profondità con il proprio oggetto, a comprenderne l’essenza. Netanyahu sa che Israele può esistere e continuare ad esistere solo perché è forte. Sa che senza questa forza che deve necessariamente opporsi a un nemico che vuole con determinazione la sua distruzione, non potrebbe esistere. E’ quello che, diversamente da lui non aveva capito Primo Levi, per il quale l’ebreo forte, nella fattispecie dell’israeliano vincitore e necessariamente dominatore, lo implicava in un deficit morale. E’ il grande equivoco in cui sono caduti e cadono molti intellettuali ebrei, del galut e in Israele, quello di scambiare la difesa dello Stato e la forza necessaria a questo compito per militarismo e volontà di potenza. Leggere le magnifiche lettere di Yonatan Netanyahu è un modo, forse è il modo migliore, per smascherare la natura ideologica di questa posizione e mostrarne il fatale, grottesco errore.
In una lettera del novembre del 1973, dopo la fine della Guerra di Yom Kippur, Netanyahu così scriverà ai suoi genitori:
“…Vedo con dolore e con grande rabbia come una parte della popolazione resta ancora aggrappata alla speranza di raggiungere un accordo pacifico con gli arabi. Il buon senso dice anche a loro che gli arabi non hanno abbandonato la loro mira di distruggere Israele; ma la tendenza ad auto-illudersi e a ingannarsi che ha da sempre contagiato gli ebrei è di nuovo al lavoro. E’ la nostra grande sfortuna. Vogliono credere, e allora credono. Non vogliono vedere, e allora chiudono gli occhi”.
E’ qui riassunto l’essenziale. In queste parole che rappresentano il controcanto a quelle artificiose e soccombenti di un Amos Oz, di un David Grossman, di un Abraham Yehoshua, e di altri come loro i quali continuano ostinatamente a illudersi che le categorie mentali di chi vorrebbe distruggere Israele possano essere riformate e che basterebbe cedere ancora più vantaggi ai nemici per raggiungere la pace.
Il rigore intellettuale che traspare dalle lettere di Yonathan Netanyahu, grande realista, membro a tutti gli effetti di una famiglia di formidabili realisti, è come un vento terso che spazza via senza esitazione le cortine di fumo degli affabulatori, dei mistagoghi, degli idealisti privi di domani. Perché il domani, per Israele, come ci insegna questo documento duro come la pietra e scintillante come lo smalto, è sempre e solo quello di sapere vedere la realtà.