Le notizie provenienti dal Medio Oriente negli ultimi giorni parlano dei missili lanciati da Gaza verso Israele e delle eliminazioni dei dirigenti del Jihad islamico da parte delle forze di difesa israeliane con, sullo sfondo, la minaccia di Hezbollah, longa manus dell’Iran nella regione, che dal Libano tiene in allerta l’esercito israeliano.
Notizie gravi che spesso vengono ascoltate con interesse e, allo stesso tempo, con la tranquillità di chi non vive quella realtà, a meno che non si abbiano parenti e amici che vivono da quelle parti o che non si provi, in quanto ebrei, un particolare legame con quei luoghi, con Eretz Israel, la “Terra di Israele”.
Proprio in virtù di questo legame che rende molti ebrei della diaspora solidali e attenti alle sorti dei propri fratelli di Israele, sabato scorso sono rimasto colpito dall’incontro con Moshè e Aviva, una coppia di Israeliani di mezza età che è stata ospite della Comunità Ebraica di Napoli per la festa per eccellenza dell’Ebraismo: lo Shabbat.
Moshè e Aviva sono una coppia come tante, che aveva deciso di trascorrere alcuni giorni di vacanza a Napoli prima che si scatenasse la pioggia di missili da Gaza su Israele. E proprio mentre erano in vacanza hanno appreso che un missile sfuggito all’Iron Dome era caduto a pochi metri dalla loro casa a Rehovot provocando la morte di una loro vicina. L’Iron Dome, l’ormai noto sistema di difesa antimissile israeliano grazie al quale è stato scongiurato un alto tributo di vittime nelle città prese di mira dalla furia omicida di Hamas e del Jihad, si basa sul connubio tra elettronica, automatizzazione e azione umana ed ha una percentuale di efficacia superiore al 90%.
Il missile palestinese caduto vicino alla casa di Moshè e Aviva ha fatto parte di quella piccola percentuale di missili non intercettati ed ha provocato danni, una vittima e alcuni feriti, a dimostrazione che l’imprecisione dei missili palestinesi non ne fa degli innocui razzi, come vorrebbero fare credere alcuni, quando riescono a colpire un centro abitato.
Nonostante l’accaduto, Moshè e Aviva, pur non sapendo con precisione in quali condizioni avrebbero trovato la loro casa, erano sereni, facevano battute con Aviva che ha raccontato divertita come, alla vista degli addobbi bianchi e azzurri che tappezzano Napoli in questi giorni per la conquista dello scudetto, le sia sembrato di trovarsi in Israele per Yom HaAtzmaut, la festa della nascita dello Stato ebraico. La loro è una normalità che conosciamo bene perché contraddistingue tutti gli israeliani che trovano il coraggio e la forza per cercare di vivere nella normalità in una condizione oggettivamente fuori di essa, quale è quella di Israele, minacciato e costretto a combattere per la propria esistenza fin dal giorno della sua fondazione.
Questa stessa normalità contraddistingue Ely, un giovane israeliano che lavora come analista di sistemi informatici e che è stato impegnato anche in iniziative di solidarietà durante la pandemia del Covid 19, il quale è stato richiamato sotto le armi per circa un mese, come accade per tutti gli israeliani, per un’attività al confine settentrionale di Israele, dove Hezbollah rappresenta un’altra seria minaccia alla sicurezza dello Stato ebraico. Ely, che ha vissuto diversi anni a Napoli prima di tornare in Israele, ma che ha mantenuto i contatti con la nostra comunità, mi ha spiegato come il richiamo fosse stato programmato diversi mesi fa e che quindi non ha niente a che vedere con gli avvenimenti degli ultimi giorni. Con molta semplicità e chiarezza, il nostro amico ci racconta di come lui e gli altri israeliani, da una vita improntata alla consuetudine, con affetti e hobby, vengano catapultati per alcune settimane in un contesto completamente diverso, indossando la divisa, imbracciando un fucile d’assalto, dormendo in brandine per tenersi sempre pronti ad intervenire per contrastare una minaccia verso Israele e i suoi abitanti, consapevoli della possibilità di mettere in pericolo la propria vita per la sicurezza degli altri.
Anche Ely, così come Moshè e Aviva, vive questa situazione dicotomica, tra una condizione di normalità, o di sua ricerca, e una condizione di insicurezza per la costante minaccia agli israeliani da parte delle organizzazioni terroristiche e di pericolo per la loro libertà. La loro, come quella di tutti gli israeliani, è una condizione difficile da comprendere per chi vive in Italia dove la sicurezza e la libertà, ottenute con il sacrificio di chi combattè contro il nazifascismo ottanta anni fa, sono considerate come cose scontate. Per gli ebrei in fondo la condizione di precarietà è una costante che si ripete da secoli nella diaspora, dove si è sempre dovuto far convivere il timore per la propria sicurezza con l’ostinata ricerca della normalità.
Probabilmente è questo il motivo per cui Moshè, Aviva, Ely riescono ad essere sereni e a conservare la loro umanità e dignità anche in una situazione in cui forse altri non riuscirebbero a farlo.