Con il dibattito, che si è aperto, di questi giorni al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in merito al piano di pace dell’Amministrazione Trump, è tornata in auge la questione dei “confini del ‘67”. Questa espressione è stata utilizzata da molti diplomatici europei e di altri paesi, in sede ONU, per definire i possibili confini tra Israele e un futuro Stato palestinese che dovrebbe sorgere alla fine di un percorso negoziale iniziato con gli Accordi di Oslo del 1993. Questa espressione è, inoltre utilizzata, in molte risoluzioni ONU, della UE e di altri organismi internazionali nonché da politici di numerosi paesi, da giornalisti, da diplomatici e dagli immancabili “esperti” del Medio Oriente da essere ormai diventata un autentico mantra inscalfibile la cui veridicità è fuori discussione.
Tuttavia non si può e non si deve parlare di “confini del ’67” nei termini del diritto internazionale.
Per fare chiarezza sulla questione dei “confini” dell’area compresa tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, dal punto di vista del diritto internazionale, bisogna partire dal Mandato britannico per la Palestina con i suoi confini stabiliti nel settembre del 1922 (cartina 1).
Per il diritto internazionale, Israele è il legittimo successore del Mandato britannico per la Palestina, perché il Mandato fu creato dalla Società delle Nazioni, come si evince in modo inequivocabile nel suo preambolo, nell’art. 2 e soprattutto nell’art. 6, al fine di ricostituire il “Jewish National Home”, cioè lo Stato nazione del popolo ebraico. Gli ebrei, nel 1948, alla fine del Mandato britannico, decisero di chiamare il loro Stato: Israele.
Il preambolo del Mandato parla esplicitamente – unico caso tra tutti i mandati mediorientali – del riconoscimento della connessione tra la terra (Palestina) e il popolo di Israele e della ragione per ricostruire lì la loro patria. Inoltre, il diritto mandatario alla terra (art. 6), sancito della Società delle Nazioni è stato riconfermato dall’art. 80 dello Statuto dell’ONU. Quindi l’art. 80 dell’ONU dà pieno diritto di rivendicazione territoriale ad Israele. Questo diritto è il “Principio di successione degli Stati” o in termini giuridici uti possidetis che prevede che i confini del nuovo Stato (Israele) ricalchino quelli dell’entità statuale che l’ha preceduto (il Mandato britannico di Palestina) e i cui confini nel 1948 sono ben visibili (cartina 1). Le deboli pretese giuridiche giordane, su questo territorio, nate dopo l’occupazione illegale (in base all’art. 2 dello Statuto ONU) iniziate nel 1948 sono finite con il Trattato di pace del 1994 firmato da Israele e Giordania.
Il grande equivoco della Risoluzione 181
Molti statisti, diplomatici e alcuni giuristi non vogliono riconoscere il diritto di Israele su i territori di Giudea e Samaria o Cisgiordania in base alla Risoluzione 181 del 1947 dell’Assemblea Generale dell’ONU. Questa posizione non ha argomentazioni giuridiche valide perché la Risoluzione 181 non era vincolante. La Risoluzione 181, che prevedeva la spartizione territoriale del Mandato Britannico tra arabi ed ebrei, rimase lettera morta in primis per il rifiuto arabo (mentre gli ebrei l’avevano accettata) seguito dal loro atto di aggressione contro questa “raccomandazione” – unico caso al mondo di aggressione militare nei confronti di un atto dell’ONU – in secundis, perchè per potere diventare vincolante la Risoluzione 181 doveva essere implementata e conclusa con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza (così come previsto anche dall’art. 27 del Mandato britannico per la Palestina) cosa che non avvenne a causa della guerra scatenata dagli eserciti arabi.
I “confini” – o più precisamente in termini legali – le linee per cessate il fuoco, creatisi sul campo nel 1949, non ricalcavano minimamente quanto previsto dalla Risoluzione 181 ma semplicemente erano delle linee che dividevano i contrapposti eserciti dopo l’invasione araba, come si vede bene dalla cartina 2.
Va sottolineato, inoltre, che la Risoluzione 181, non è più citata in nessuna risoluzione successiva concernente i “territori”, ad ulteriore riprova del suo valore nullo. Basta fare una comparazione, ad esempio, con la Risoluzione 242 del 1967 che è la base – ed è sempre citata – di tutte le successive risoluzioni concernenti Israele, e dei trattati di pace con Giordania, Egitto e degli accordi di Oslo. Questa comparazione fa comprendere bene quando una risoluzione è fondamentale per tutti i successivi sviluppi politico-diplomatici e quando, invece, perde del tutto il suo valore.
Volendo poi, entrare nel merito dei termini delle disposizioni per il cessate il fuoco siglato a Rodi nell’aprile del 1949 tra Giordania e Israele, quanto siglato tra le parti non lascia dubbi di interpretazione legale. Se ne riporta il punto 9 dell’articolo VI:
9) “The Armistice Demarcation Lines defined in articles V and VI of this Agreement are agreed upon by the Parties without prejudice to future territorial settlements or boundary lines or to claims of either Party relating thereto.”
“Le linee armistiziali come definite negli art. V e VI del presente accordo sono pattuite dalle parti senza pregiudicare futuri accordi territoriali o confini o rivendicazioni di ciascuna delle parti ad esso relative.”
Questo è l’unico documento legale tra le parti e non parla di “confini” anzi ne esclude, categoricamente, la definizione. Si può anche aggiungere una considerazione politica oltre che giuridica per la scelta araba di utilizzare il termine “linee armistiziali” e non “confini”: le linee armistiziali erano provvisorie e non avevano implicazioni di riconoscimento de iure dello Stato di Israele che non era così riconosciuto da nessun paese arabo come ribadito con i tre famosi no di Khartum.
Lo stesso discorso vale per gli accordi tra Egitto ed Israele per la striscia di Gaza.
La Risoluzione 242 come base legale degli accordi di pace
La parte operativa – quella più importante e col maggior peso legale come in tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – della Risoluzione 242, è divisa in due disposizioni. La prima afferma che il pieno compimento dei principi della Carta ONU deve passare:
- a) dal ritiro delle forze armate israeliane «da territori» occupati nel recente conflitto
- b) dal rispetto dell’integrità territoriale di tutti gli Stati dell’area e dal loro diritto di vivere in pace e con confini «sicuri e riconosciuti»
La prima considerazione da fare, è che il punto cruciale della disposizione si trova nell’aggettivo “both”, (“entrambi” in inglese), cioè si devono applicare, contestualmente, entrambe le disposizioni, e non una sola delle due – il ritiro delle truppe israeliane – come vuole una certa interpretazione faziosa della risoluzione. Questo significa che Israele deve sì ritirarsi “da una parte dei territori” conquistati ma non obbligatoriamente da tutti, altrimenti sarebbe chiaramente esplicitato. Questo ritiro deve avvenire dopo il riconoscimento di Israele, da parte degli Stati aggressori: Egitto, Giordania e Siria, con futuri accordi di pace che sanciscano i confini – e non semplici linee di armistizio come quelle del 1949 e fin lì in vigore – internazionali e difendibili, che tengano conto della morfologia del territorio e della sicurezza di Israele. Bisogna sottolineare che Israele si è ritirato dalla maggior parte dei territori conquistati nel 1967 come la risoluzione imponeva.
E’ da evidenziare relativamente a questa disposizione l’utilizzo del termine “Stati”. Qui si parla in modo inequivocabile di “Stati dell’area” quindi di Stati già riconosciuti al momento degli avvenimenti, cioè Israele, Libano, Siria, Giordania ed Egitto, e non quindi di altre “entità” come un inesistente “Stato palestinese”. E’ opportuno ribadire che questa risoluzione è stata riconfermata in toto dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 338 del 1973. Quindi, l’utilizzo dell’espressione “territori palestinesi occupati” non ha nessun riscontro nel diritto internazionale.
La Risoluzione 242 è diventata vincolante per le parti in causa perché è la Risoluzione usata come base legale per gli accordi di pace tra Israele, Egitto e Giordania, oltre che per la Conferenza di Madrid del 1991 e i successivi Accordi di Oslo (1993-1995) tra L’Autorità Nazionale Palestinese e Israele.
Quando, invece, si inizia a parlare in termini legali delle rivendicazioni palestinesi sui “territori”?
Le rivendicazioni palestinesi hanno valore legale, per il diritto internazionale, solo dal 1995 con gli accordi di Oslo. E solo perché Israele ha accettato l’OLP come interlocutore per la pace con approvazione internazionale. Da questo momento in avanti si può parlare di territori contesi di Giudea e Samaria (Cisgiordania). La presenza israeliana in alcune delle sue differenti aree amministrative, cioè in aree di questi territori, specificatamente l’Area B e l’Area C, è dettagliatamente disciplinata negli Accordi ad Interim: «Israeli-Palestinian Interim Agreement on the West Bank and Gaza Strip, September 28, 1995», e quindi non contestabile a posteriori come vuol fare credere una certa vulgata.
In conclusione, per il diritto internazionale, dopo i trattati di pace tra Israele, l’Egitto e la Giordania e gli Accordi di Oslo – con la suddivisione di Giudea e Samaria – nelle aree A, B e C tra Israele e l’ANP in nessun modo si può parlare di “territori occupati” o peggio di “territori palestinesi occupati”.
Conseguentemente a questi fatti si evince chiaramente che avvalorare i “confini del 67” vorrebbe dire riconoscere ex-post e legalmente confini nati da un atto di aggressione militare cosa inammissibile per il diritto internazionale (art. 2 Statuto dell’ONU).
L’espressione “i confini del ‘67” essendo priva di cogenza giuridica ha unicamente una ragione d’essere politica il cui scopo è quello di imporre a Israele dei confini mai esistiti dandone una connotazione legale per avvalorarne l’assunto, oltre che per far credere che la mai avvenuta creazione di uno Stato palestinese sia imputabile a Israele e non agli arabi stessi.
Questo concetto è alla base di numerose risoluzioni ONU, che non hanno valore legale ma solo politico, è che sono culminate con la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza. Lo stesso criterio vale per le risoluzioni emesse dal Parlamento Europeo.