Pubblichiamo questo omaggio a Tel Aviv e a Israele di Guglielmo Maccioni apparso per la prima volta sul blog dell’autore, che ringraziamo per la gentile concessione.
Da bambino facevo un gioco con mio zio Orlando. Io pronunciavo il nome di uno stato del mondo e lui puntuale rispondeva con la rispettiva capitale. A parte la mia sorpresa nel constatare ogni volta che le sapeva tutte, ricordo bene l’effetto che mi facevano i nomi più strani ed esotici…Karachi, Nuova Dehli, Ankara, Lagos… Fra questi c’era anche Tel Aviv, che puntualmente si accompagnava ad un o Gerusalemme visto che anche mio zio, tra il ginepraio mediorientale, non sapeva che pesci pigliare. Quel suono, Tel-Aviv, mi colpiva particolarmente perché non aveva nulla in comune con gli altri nomi della regione. Betlemme, Nazareth o la stessa Gerusalemme erano per me arcadici luoghi da presepe, perennemente innevati (!), odorosi di incenso e con una stella cometa a stazionare tutto l’anno sui loro cieli.
Tel-Aviv che mi masticavo in bocca era un suono che accostavo a televisore e, se esisteva, per me aveva più a che fare con Star Trek che con mitici patriarchi centenari, miracoli dei pani e dei pesci e crocifissioni tra due ladroni. Un giorno, mi ripromettevo, ci sarei andato di persona a constatare la veridicità di quanto affermava mio zio Orlando.
E’ passata meno di una settimana da quando ho realizzato quel sogno infantile e Tel Aviv esiste davvero, adagiata per chilometri sulla prima spiaggia mediterranea venendo dall’Asia o sull’ultima venendo dall’Europa. Circondata da città satelliti che si compattano con essa a formare la metropoli del Gush Dan, l’immenso Blocco di Dan, dall’alto di uno dei suoi tanti grattacieli appare bianca, densa e monolitica, addirittura possente nel suo bagliore notturno.
Esiste davvero la “Collina della Primavera” (Tel-Aviv appunto), che c’entra eccome con i patriarchi biblici portando nel nome traccia e ricordo del Vecchio Testamento ma in maniera leggera, soave e speranzosa. Nulla a che vedere con la pesantezza di Gerusalemme, la sua gravità millenaria o la sua incancellabile sacralità.
Tel Aviv nasce senza pretese come piccola comunità di esuli ebrei perseguitati a fine ‘800 sia in Europa che ormai a Jaffa. Nasce da sessanta conchiglie raccolte sulle dune sabbiose un chilometro a nord della vecchia Jafo biblica e usate per assegnare a sorte ad altrettante famiglie i lotti legalmente acquistati presso i grandi proprietari arabi che li ritenevano inutili ed improduttivi. L’intraprendenza, la tenacia e la forza di volontà dei primi coloni hanno trasformato pian piano un grumo di baracche in una vera e propria Terra Promessa per migliaia di profughi dal resto del Paese o dalla stessa Europa. Il sangue di questo carattere è rimasto intatto nelle arterie a dieci corsie come nei vicoli del centro della metropoli d’oggi e lo spirito d’accoglienza mescola ebrei ed arabi, yemeniti ed etiopi, polacchi e russi, rumeni e tedeschi, gay ed etero in un mosaico di sensazioni dolci come è il clima da queste parti. La sua tolleranza, in un’area geografica lacerata dal fondamentalismo, assume ancora più valore, ancora più forza l’energia con cui conduce la sua quotidiana battaglia contro.
Ma con tutta la sua potenza impattante di una Berlino mediterranea che vomita energia come un fascio di elettroni eccitati tra due cariche opposte rimane un limes Tel Aviv, un labile confine fisico e mentale tra mondi lontanissimi, un sogno in precario equilibrio tra rem e veglia che hanno cercato di spegnere con il più intollerante dei crimini, gli uomini bomba. Ma quelle sessanta conchiglie delle origini sembrano ancora reggere ed offrono riparo tanto al muezzin della moschea Hassan Ben sul lungomare (vista bikini) quanto all’hipster gay della trendyssima Neve Tzedek, il quartiere francese.
La Gaza di Hamas dista solo sessantacinque chilometri ma sembrano sessantacinque anni luce. Evidentemente la leggerezza di quelle sessanta conchiglie delle origini è ancora intatta.