Segnali giungono dall’amministrazione Trump che forse potrebbe essere la volta buona per mettere la pietra tombale sui fatidici Accordi di Oslo del 1993-1995, il cavallo di Troia in virtù del quale l’OLP del lord of terror Yasser Arafat si insediò nel cuore di Israele.
Gli Accordi nascevano dalla folle scommessa che un terrorista musulmano cacciato progressivamente da buona parte del Medioriente, dall’Egitto, dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania e dal Kuwait, e riparato a Tunisi dove sarebbe stato condannato all’irrilevanza, avrebbe potuto trasformarsi in nation builder e partner per la pace.
Sotto l’egida degli Stati Uniti, che avevano riconosciuto l’OLP come interlocutore nel 1988, quando Ronald Reagan era allo scadere del suo secondo mandato, Arafat venne ripescato dal cono d’ombra in cui si era cacciato.
Shimon Peres, il principale promotore degli Accordi che costarono a Israele 1600 morti a causa delle due intifade che ne risultarono, sognava ad occhi aperti un Medioriente in cui si sarebbe inverata laicamente la profezia escatologica di Isaia.
“Un Medio Oriente senza guerre, senza nemici, senza missili balistici, senza testate nucleari…un Medio Oriente che non è un campo di sterminio ma un campo di creatività e crescita“.
L’utopia di Peres, non era quella che animava Rabin, assai più circospetto ad abbracciare come partner per la pace Arafat, ma alla fine diventò anche lui parte sostanziale in causa nel sostenere gli Accordi, e continuò a farlo nonostante tutte le circostanze in cui il padre e padrone dell’OLP confermava la sua vera natura di lupo travestito da agnello.
C’era forse solo un punto effettivo sul quale i due principali fautori degli Accordi di Oslo convergevano, ed era la contrarietà alla nascita di un vero e proprio Stato palestinese autonomo. Per Rabin, avrebbe dovuto essere un’entità poco meno di uno Stato, mentre per Peres l’idea era che al suo posto nascesse una confederazione giordana-palestinese. Ciò non ha impedito che la formula dello Stato autonomo, sulle colline della Cisgiordania, sia rimasta in auge per ventisei anni, come l’unico paradigma contemplabile, l’unica soluzione sulla strada della pace.
Oggi le cose sembrano cambiate. La dichiarazione in campagna elettorale da parte di Benjamin Netanyahu di volere annettere l’Area C della Cisgiordania, nella quale vivono 400,000 cittadini ebrei e circa 140,000 arabi, e il fatto che da Washington non sia giunto alcun segno di contrarietà, significa che il piano di pace americano, o “accordo del secolo”, sia basato su un rinnovamento dei parametri, come ha confermato, senza specificare quali, Jared Kushner, Consigliere alla Casa Bianca, con una delega speciale sul dossier mediorientale.
Già il Segretario di Stato, Mike Pompeo, durante un’altra intervista, alla domanda dell’intervistatore, se la dichiarazione di Netanyahu avrebbe potuto danneggiare il piano di pace americano, aveva risposto di no.
Quello che è evidente, al di là delle speculazioni su quello che conterrà il piano, è che la partita americana si gioca sopra la testa di Abu Mazen e dell’Autorità Palestinese, manifestamente ridotti all’irrilevanza, con interlocutori di ben altra portata, gli Stati arabi sunniti, in primis l’Arabia Saudita.
La stanchezza araba nei confronti della causa palestinese, ormai sostenuta apertamente nel mondo islamico solo dall’Iran e dalla Turchia, è da anni percepibile. Ma lo è soprattutto oggi, in un frangente in cui la stretta decisa degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, li ha ricollocati come un attore di primo piano negli equilibri regionali, dopo il disimpegno di Barack Obama.
La realtà è che il conflitto arabo-israeliano poi declinatosi come conflitto israelo-palestinese è giunto per i palestinesi a una empasse. Il livello di sicurezza raggiunto da Israele è tale ai giorni nostri che una intifada come quella del 2000-2005 non è, fortunatamente, più pensabile, e malgrado sporadici ma persistenti atti terroristici, le morti di soldati e civili israeliani per mano palestinese dalla fine della Seconda Intifada a oggi, è calata enormemente. A Gaza, Hamas rappresenta sempre un problema, ma la politica di contenimento dello Stato ebraico, è riuscita a fare sì che il gruppo jihadista sia sostanzialmente gestibile. Hamas, dal canto suo, sa che può contare su Israele per la propria sopravvivenza, interessato come è unicamente alla gestione del potere all’interno della Striscia.
Nessuna pace duratura con i palestinesi è mai conseguita alla cessione di terra da parte di Israele. Non dopo che i territori della Cisgiordania, a seguito degli Accordi di Oslo, furono suddivisi in tre aree distinte, con l’Area A e B cedute all’Autorità Palestinese, né dopo che Israele lasciò Gaza nel 2005.
La persistenza del jihad contro Israele è stata una costante dal 1948 ad oggi, contenuta solo in virtù dei progressivi sforzi del paese nel riuscire a contrastarla con successo. L’idea di uno Stato palestinese si è rivelata dal 1993 solo un pretesto per continuare ad attaccare Israele, cercando al contempo di convincere l’opinione pubblica mondiale che la sua mancata nascita fosse dovuta all’intransigenza ebraica, malgrado l’ampiezza delle concessioni poste in essere, come la proposta di Ehud Barak del 2000 che concedeva ad Arafat tra il 94 e il 96% della Cisgiordania e la suddivisione di Gerusalemme. Proposta ulteriormente implementata da Ehud Olmert nel 2008.
Gli Accordi di Oslo rappresentano la testimonianza di un fallimento politico totale animato da parte israeliana dalla volontà di trovare a tutti i costi una intesa impossibile. Su di essi, sulla loro inamovibilità, l’Autorità Palestinese, ha potuto lucrare senza sosta godendo del supporto del Dipartimento di Stato americano e del costante apporto finanziario che gli Stati Uniti, sotto diverse amministrazioni, repubblicane e democratiche, non gli hanno mai fatto mancare. Tutto ciò, con l’amministrazione Trump è venuto meno.
Quali saranno i dettagli contenuti nella road map americana, che dovrebbe vedere la luce in luglio, è da vedere, ma una cosa è assai probabile, la prospettiva sarà inedita.