Editoriali

La determinazione di Israele e le protesi dell’Iran

A dieci mesi dall’inizio dell’operazione militare a Gaza, Israele sembra trovarsi a un punto di svolta. L’uccisione di Ismail Hanyieh, preceduta da quella, seppure smentita da Hamas, dell’imprendibile Mohammed Deif, più quella di altri esponenti di rilievo dell’organizzazione jihadista che dal 2007 governa la Striscia, segnala una accelerazione risoluta e la dimostrazione, soprattutto dopo l’uccisione di Haniyeh, l’interlocutore principale di Hamas con l’Iran, di non temere ripercussioni, mostrando una determinazione chiara.

Dopo mesi di incertezza, dovuti soprattutto alla forte pressione americana nel cercare di costringere Netanyahu a chiudere la guerra, ora appare evidente che il premier israeliano, abile e spregiudicato slalomista, sta mettendo l’Amministrazione Biden davanti al fatto che i negoziati per il rilascio degli ostaggi ancora prigionieri a Gaza sono diventati  un fattore secondario rispetto a quello che è sempre stato l’obiettivo primario della guerra, terminare a Gaza il dominio militare di Hamas, consentendo a Israele di gestire per il periodo necessario il controllo temporaneo della Striscia e trovando, nel frattempo, il modo di impiantare un governo arabo che con l’organizzazione terrorista non abbia alcun rapporto.

Mettere fine al dominio politico-militare di Hamas a Gaza significa privare l’Iran, principale agente destabilizzatore della regione, di una delle sue protesi, la maggiore essendo Hezbollah in Libano, tuttavia, prima di concentrarsi sul fronte libanese obbligando il gruppo sciita alle dipendenze di Teheran ad arretrare oltre il confine del fiume Litani e quindi ripristinando a nord le condizioni di sicurezza necessarie per il ritorno degli ottantamila sfollati israeliani che hanno dovuto lasciare le loro abitazioni, è necessario che l’operazione militare a Gaza si appresti alla sua conclusione.

Di fatto, la capacità operativa e politica di Hamas è stata quasi completamente disarticolata, e lo si è visto plasticamente dopo la morte di Hanyieh. Da Gaza su Israele sono arrivati solo una decina di razzi, tutti intercettati. La capacità reattiva di Hamas contro Israele è ormai ridotta all’inesistenza. A suggello del suo tracollo sarebbe sufficiente l’uccisione del morto che cammina, Yahya Sinwar.

Una guerra aperta con Hezbollah, con un eventuale intervento diretto in Libano, pone per Israele questioni ingenti di sicurezza e di logistica, ma risulta inevitabile alla luce della necessita israeliana di ricostruire la deterrenza al nord e di assestare all’Iran il colpo maggiore.

Nel suo discorso al Congresso del 24 luglio, Netanyahu ha insistito su un fatto fondamentale, il nemico principale di Israele e, al contempo, uno dei principali nemici degli Stati Uniti, è il regime di Teheran.  La guerra in corso non ha nulla a che vedere con il “popolo palestinese”, non ha nulla a che vedere con un “genocidio” (accusa al limite del grottesco) nei suoi confronti, ma è una guerra atta a ridurre il raggio dell’influenza iraniana nella regione, per questo, è impensabile che, a un certo punto, dopo Hamas non sia il turno di Hezbollah.

Hamas e Hezbollah rappresentano due grandi errori politico-strategici di Israele, entrambi fatti crescere nell’ultimo ventennio, e rappresentano anche il fallimento di una intera concezione militare, quella fondata sul rifiuto dello scontro diretto e del dispiego massiccio di forze di terra, e interamente basata sul contenimento, rafforzato, in modo particolare, nel caso di Hamas da operazioni militari con obiettivi limitati.

Con Hezbollah, l’Iran ha pazientemente saputo costruire la più temibile forza integralista regionale e il fronte più pericoloso e potenzialmente distruttivo per lo Stato ebraico, appoggiato in scala minore da Hamas e oggi coadiuvato dagli Houti yemeniti. L’Iran, che si sta progressivamente avvicinando agli ordigni atomici. Su queste sue due protesi principali Israele, dopo il 7 ottobre, non può più permettersi di fare errori.

 

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