Dopo cinque anni dall’esame preliminare a seguito della richiesta fatta dall’Autorità Palestinese, la Corte Internazionale dell’Aia, nella persona del suo Procuratore Capo, Fatou Bensouda, ha deciso che c’è una “base” per indagare supposti crimini di guerra commessi da Israele durante l’ultimo conflitto con Hamas nell’estate del 2014.
Secondo il parere della Bensouda vi sarebbe “Una ragionevole base per credere che crimini di guerra siano stati commessi nel contesto delle ostilità del 2014 a Gaza da parte dell’IDF“.
Siamo al solito copione. Quando Israele si difende e reagisce all’offensiva del nemico, siano essi attacchi di razzi come i 4844 lanciati su Israele da Hamas nel corso delle sette settimane del 2014, o più recentemente quando jihadisti tentano di introdursi in Israele sabotando la barriera di confine con Gaza facendosi scudo di una cosiddetta Marcia per la Pace e vengono poi uccisi, si tratta sempre di “uso sproporzionato della forza”.
Nel 2009, a seguito di un altro conflitto tra Hamas e Israele, l’Operazione Piombo Fuso, il Consiglio ONU per i Diritti Umani istituì una apposita commissione per verificare se Israele avesse commesso crimini di guerra. Seguì un rapporto chiamato con il nome del presidente della commissione, Richard Goldstone, il quale addossava interamente a Israele la responsabilità del conflitto. Sennonché, nel 2011, fu lo stesso giudice Goldstone a disconoscere quel rapporto dichiarando:
“Se avessi saputo allora quello che so oggi, il Rapporto Goldstone sarebbe stato un documento diverso. Le accuse di premeditazione da parte di Israele erano fondate sulle morti e le ferite dei civili in situazioni nelle quali la nostra missione intesa a verificare i fatti non disponeva di nessuna prova sulla base della quale potere giungere a conclusioni diverse. Mentre le investigazioni pubblicate dall’esercito israeliano e accettate nel rapporto del comitato delle Nazioni Unite, hanno stabilito la validità di alcuni episodi da noi investigati relativamente a casi concernenti soldati singoli, esse indicano anche che i civili non vennero presi intenzionalmente di mira…”
Tuttavia, Israele deve essere colpevole, a prescindere. Così, nel 2004, un altro organo, la Corte Internazionale di Giustizia, emise un parere consultivo scandaloso, qualificando la barriera difensiva di Israele “illegale”. Nessuna considerazione cogente venne fornita della ragione fondamentale per la sua costruzione; la salvaguardia della popolazione israeliana dalla violenza terroristica. Per la Corte, infatti, l’unica minaccia che avrebbe potuto giustificare da parte di Israele la costruzione di una barriera di protezione sarebbe stato l’attacco di uno Stato armato. La virulenta ondata terroristica abbattutasi su Israele durante la Seconda Intifada non rappresentava per i giudici della Corte una ragione sufficiente perché esso dovesse dotarsi di una forma di difesa.
Nell’ottobre del 2018, la stessa Fatou Bensouda dichiarò, relativamente al contenzioso che aveva come oggetto il villaggio beduino di Khan al’Ahmar, sito nell’Area C della Cisgiordania che se fosse stato demolito, si sarebbe trattato di un “crimine di guerra”.
Non è un caso naturalmente che né Israele né gli Stati Uniti abbiano firmato il Trattato di Roma a cui la Corte si ispira, non riconoscendo alla Corte alcun potere giurisdizionale sul proprio territorio.
In questo senso, la posizione espressa dal Procuratore di Stato Avichai Mandelblit in merito alle dichiarazioni della Bensouda non possono essere più chiare:
“La posizione legale dello Stato di Israele, che non fa parte dell’CPI, è che la Corte non abbia giurisdizione relativamente a Israele e che qualsiasi azione palestinese rivolta alla Corte non sia legalmente valida”.
La stessa adesione dello Stato Palestinese alla Corte, avvenuta nel 2015, con l’evidente scopo di trovarvi una accoglienza alle proprie istanze, pone il problema su come la Corte possa affermare la propria giurisdizione nei confronti uno Stato inesistente secondo i criteri base del Diritto Internazionale.
La Corte, dunque, non può intervenire in merito a una questione che interpella due attori, da una parte lo Stato di Israele, sul quale essa non ha alcuna giurisdizione non facendo esso parte dell’ICC, dall’altro l’entità conosciuta come “Stato palestinese”, che non essendo uno Stato non può in alcun modo rientrare nella giurisdizione della Corte.
Di cosa si tratta allora? Evidentemente di una decisione la quale evidenzia la natura squisitamente politica della Corte, ben lontana dall’imparzialità che dovrebbe connotarne l’operatività, ragione per la quale, né Israele né gli Stati Uniti le riconoscono, alcuna legittimità.