Diritto e geopolitica

La Corte Penale Internazionale e il retroscena

E’ di questi giorni la notizia che la Corte Penale Internazionale, attraverso il parere di un suo giudice, il Procuratore Capo Fatou Bensouda, possa aprire un procedimento contro Israele per crimini di guerra. Se, dalla fase dell’esame preliminare si passerà al procedimento effettivo, esso avrà pesanti ripercussioni per numerosi politici e militari israeliani. E’ utile ricordare che i procedimenti della Corte Penale Internazionale sono rivolti contro le persone e non contro gli Stati.

In passato, per tre volte, il Procuratore Capo Bensouda ha respinto, perché non vi erano gli estremi, un procedimento contro Israele sempre per “crimini di guerra”. E’ accaduto relativamente  alla vicenda della Mavi Marmara del 2010, la nave che faceva parte di una flottiglia allestita da un’organizzazione terroristica turca, la IHH, “mascherata” da organizzazione umanitaria, con l’intenzione di rompere il blocco navale, legittimo, che Israele aveva imposto a Gaza per prevenire il traffico di armi gestito da Hamas. La presa di controllo della nave da parte di Israele costò la vita a 10 cittadini turchi. La richiesta di procedimento fu richiesta dalle Isole Comore nel maggio del 2013. Richiesta respinta dal giudice Bensouda. La richiesta fu, nuovamente, ripresentata da una camera pre-processuale della stessa Corte Penale Internazionale su insistenza delle Comore nel luglio 2015 e nuovamente rigettata dal giudice Bensouda. Infine – caso unico al mondo – ripresentata per la terza volta nel settembre del 2019 e cassata definitivamente il 2 dicembre. In che cosa di diversifica l’atteggiamento del giudice in merito al caso della Mavi Marmara e quello attuale dei presunti “crimini di guerra” di Israele in Giudea, Samaria, Gerusalemme e Striscia di Gaza?

Nel primo caso si è trattato di un “semplice” caso di verifica del rispetto o meno del diritto internazionale in una azione di autodifesa. Nel secondo si stratta di un “difficile” caso dove il diritto internazionale è completamente soppiantato da una logica politica, portata avanti in maniera maniacale da ONU, UE e dagli USA – cominciando co  l’Amministrazione Carter e proseguendo fino all’Amministrazione Obama– che vede in Israele una “forza occupante” di “territori palestinesi” a prescindere della validità storica e giuridica di questo assunto.

I presupposti per individuare supposti “crimini di guerra”, sono essenzialmente due: la costruzione di abitazioni in Giudea, Samaria (Cisgiordania o West Bank) compresa Gerusalemme, e l’uso “sproporzionato” della forza nella Striscia di Gaza. Il primo presupposto si fonda sul Memorandum Hansell scritto da un giurista americano tra il 1978-1979 per volontà dell’allora presidente americano  Jimmy Carter.

Nel suo memorandum, Hansell sostenne l’idea che Israele violasse il diritto internazionale e più precisamente l’art. 49 comma VI della IV convenzione di Ginevra del 1949, permettendo l’insediamento di civili in Giudea, Samaria e Gerusalemme. Il testo dell’articolo è il seguente:

Art. 49 Comma VI:

La Potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato.

Sull’interpretazione data da Hansell a questo comma dell’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra si è costruita tutta intera la tesi dell’illegalità della presenza ebraica in Giudea, Samaria e Gerusalemme.

E’ opportuno ribadire che questa tesi non ha fondamento per due semplici ragioni:

  • Non si può parlare di “territori occupati” perché questi territori furono assegnati al popolo ebraico con il Mandato britannico di Palestina del 1922. Inoltre con gli accordi di Oslo del 1995 le aree dove sorgono i così detti “insediamenti” sono state riconosciute, dai palestinesi stessi, come di pertinenza esclusiva israeliana (Area C), quindi pienamente legali.
  • Considerare la presenza di civili ebrei in Giudea, Samaria e Gerusalemme come conseguenza di “deportazione o trasferimento” coatto non ha basi giuridiche (e di buon senso). Nel commentario della Croce Rossa Internazionale del 1958 sul terzo paragrafo della IV Convenzione di Ginevra (utilizzato in tutto il mondo giuridico sul tema dell’occupazione) si ribadisce in modo inequivocabile che per “ deportazione o trasferimento” si intende un’azione coatta sotto la minaccia delle armi, e si riferisce all’opera di deportazione e colonizzazione che fece la Germania nazista durante la Seconda Guerra mondiale quando invase i paesi dell’Est Europa. Cosa evidentemente non applicabile a Israele e ai “territori”, in quanto, in questo caso, la popolazione civile è tornata, in taluni casi, dopo essere stata cacciata dai giordani, in altri casi acquistando un terreno ed edificando, in altri ancora, andando a vivere in zone diverse e sparse sul territorio e mai in un luogo unico e concentrato, cioè in modo indipendente e senza imposizioni governative. Lo evidenzia anche il fatto che in diverse circostanze sono state demolite abitazioni costruite abusivamente e senza autorizzazioni con sentenza della stessa Corte Suprema israeliana.

La tesi di Hansel venne disconosciuta dall’Amministrazione Reagan ma è rimasta in voga in ambito internazionale. La sua flagrante pretestuosità è dimostrata dal fatto che in nessun caso al mondo – di reale occupazione – il comma 6 dell’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra sia mai stato applicato. Per di più non fu mai applicato neanche ai territori stessi di Giudea e Samaria durante l’illegale occupazione giordana durata del 1948 al 1967. Si è iniziato ad applicarlo politicamente, esclusivamente, a Israele, a partire dal 1978.

Il memorandum Hansell prevedeva la fine dell’”illegalità”, della presenza ebraica nei territori, nel momento in cui si fosse trovato un accordo con la Giordania. Cosa che è avvenuta nel 1994 con il trattato di pace tra i due paesi con il quale, la Giordania ha rinunciato definitivamente a ogni rivendicazione sopra i territori ad ovest del fiume Giordano.

Alla luce di ciò, se non è applicabile il comma 6 dell’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra, e il memorandum Hansell è di fatto terminato con il trattato di pace tra Giordania e Israele, come ha fatto la presenza ebraica in Giudea e Samaria a diventare addirittura un “crimine di guerra”?

In virtù di quello che è uno degli organismi internazionali più politicizzati assieme al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite e all’Assemblea Generale – il Tribunale Penale Internazionale. Ciò accadde con  il Trattato di Roma  del 1998 con cui si decise di far diventare crimini di guerra i divieti, imposti ad un paese occupante, sanciti dalla IV Convenzione di Ginevra.

Nello Statuto della Corte Penale Internazionale, approvato con il Trattato di Roma del 1998 e diventato operativo a partire dal 2002 dopo la ratifica di Istanbul del 2002, al suo articolo 8 comma VIII si legge:

“Il trasferimento, diretto o indiretto, ad opera della potenza occupante, di parte della propria popolazione civile nei territori occupati o la deportazione o il trasferimento di tutta o di parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di tale territorio”.

Questo articolo è praticamente identico all’art. 49 comma 6 della IV Convenzione di Ginevra con la fondamentale aggiunta dell’inciso, diretto o indiretto, relativo al trasferimento della popolazione. E’ una aggiunta di estrema importanza per due motivi:

1) Da conferma che l’art. 49 comma 6 della IV Convenzione di Ginevra prevedeva solo il trasferimento o la deportazione coatta di popolazione altrimenti non ci sarebbe stata necessità di questa aggiunta. E questo sconfessa la “dottrina Hansell” se c’erano dei dubbi.

2) La lettura dei verbali di stesura dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale, ci fa capire in modo inequivocabile che furono i paesi dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica a volere fortemente l’inserimento di questo inciso con il chiaro intento di poterlo utilizzare un giorno contro Israele.

Il Tribunale Penale Internazionale è stato creato con modalità politiche del tutto simili a quelle relative all’Assemblea Generale. I paesi che vi hanno aderito sono 122 su 193 riconosciuti dall’ONU. Non vi hanno aderito tra gli altri Israele e gli USA. L’Amministrazione Clinton aveva firmato il trattato di Roma con molte riserve poi però il Congresso non lo ha ratificato rendendo nulla la firma. Nel 2002, il presidente  George W. Bush, su indicazione di John Bolton, firmò una legge l’ “American Service Members’ Protection Act”, con la quale di fatto si autorizzano i presidenti USA ad utilizzare “tutti i mezzi” per liberare i soldati e il personale americano all’estero che, eventualmente, venisse condannato dal Tribunale Penale. Questa legge sancisce l’illegalità, per gli USA, dei provvedimenti del tribunale.

Dal 2015 è subentrato un centoventitreesimo Stato firmatario che uno Stato non è: la Palestina il cui ingresso contravviene lo stesso Statuto del tribunale. Per suo Statuto il Tribunale prevede, come tutti gli altri organismi internazionali riconosciuti dall’ONU, che vi possano aderite solo gli Stati riconosciuti cioè quelli con le caratteristiche legali previste dalla Convenzione di Montevideo. Lo “Stato di Palestina” non ha nessun requisito minimo per essere riconosciuto come tale, tanto è vero che non è riconosciuto come Stato dall’ONU, in quanto è necessario il riconoscimento da parte del Consiglio di Sicurezza che è l’unico organismo legale deputato a farlo. Si è trovato però il modo di aggirare l’ostacolo facendolo diventare “Stato Osservatore” tramite la decisione politica di un organismo squisitamente politico: l’Assemblea Generale dell’ONU. Questo sotterfugio ha permesso allo “Stato di Palestina” di venir accettato, presso il Tribunale Penale Internazionale nel 2015, ingresso a cui ha fatto immediatamente seguito da parte del suo rappresentante una denuncia nei confronti di Israele per “crimini di guerra”.

Va altresì sottolineato che la Corte Penale Internazionale agisce quando, in un Stato indipendente o in uno soggetto ad occupazione, avvengono dei presunti crimini e il sistema giudiziario dello Stato denunciato, per le più svariate ragioni, non ha l’autonomia o le capacità di giudicare i presunti colpevoli. Quindi, il tribunale si sostituisce all’autorità giudiziaria locale. In pratica si riconosce l’incapacità di uno Stato di poter garantire giustizia per dei crimini commessi al proprio interno. Applicando questo principio ad uno Stato di diritto come Israele con il suo sistema giudiziario altamente autonomo e garantista, ad iniziare dalla Corte Suprema, se ne delegittima completamente la legalità. Ed è questa, in ultima analisi, la finalità: delegittimare Israele come Stato di diritto oltre che come “forza occupante illegale” che non sarebbe in grado di perseguire i responsabili dei “crimini di guerra”.

Le motivazioni squisitamente “politiche” e non di diritto che hanno portato il giudice Fatou Bensouda a intravedere le basi di un procedimento contro Israele sono le seguenti:

L’accettazione della denuncia dello “Stato di Palestina” è un atto politico e non ha basi giuridiche, perché come evidenziato, si tratta di un “Stato” che ha solo i requisiti politici (decisione Assemblea Generale) e non giuridici (Consiglio di Sicurezza) per essere considerato tale.

Per fare degli esempi è come se un giorno, politicamente e non legalmente, si accettassero le istanze dei catalani, dei baschi, dei nord irlandesi o dei lombardi per denunciare i governi centrali dei paesi di cui fanno parte.

Seconda considerazione: il giudice asserisce nella sua motivazione a procedere, che ci sono delle basi in quanto si tratta di “territori occupati palestinesi” in base unicamente al fatto che così sono descritti da “numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU” che però è un organo politico e non giuridico, e non entra mai in merito se dal punto di vista del diritto internazionale, li si possa considerare tali. Si tratta dunque di una considerazione politica e non legale, esattamente come, nel 2004, si espresse la Corte di Giustizia Internazionale in merito alla barriera difensiva di Israele.

Terza considerazione: il giudice non esprime un’opinione sul fatto che Israele abbia un sistema legale che possa autonomamente ravvisare violazioni dei diritti umani o “crimini di guerra”. Quindi se ritiene necessaria un’azione del Tribunale Penale Internazionale cio vuol dire che Israele non ha un sistema giudiziario all’altezza e implicitamente ne delegittima il sistema.

Quarta considerazione: nessun altro caso simile è mai stato aperto. In nessun caso di reale occupazione, per citare solo le più note: Cipro, Cambogia, Timor Est, Libano, Crimea, Sahara Occidentale, Nagorno Karabach, sono mai state ravvisati gli estremi per aprire procedure in base all’art. l’art. 49 comma VI della IV convenzione di Ginevra del 1949 o per “crimini di guerra” in base all’art. 8 comma VIII dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale.

Il diritto per essere tale deve essere universale e applicabile a tutti i casi in egual modo e non una volta si e dieci no altrimenti è meramente un fatto politico e non giuridico.

Si può affermare senza ombra di dubbio che il voler vedere un “crimine di guerra”, nella costruzione di case e nel permettere a dei comuni cittadini che lo desiderano di risiedere in un territorio non occupato, non ha nulla a che fare con il diritto ma ha solo a che spartire con la politica.

In merito al presunto uso sproporzionato della forza, il diritto internazionale è molto vago e suscettibile di varie interpretazioni. Diventa assai difficile poterlo applicare in casi di conflitto “standard” cioè tra due eserciti e relative azioni militari che colpiscono la popolazione civile durante gli avvenimenti bellici ma diventa quasi impossibile in casi di guerra “asimmetrica” cioè tra uno Stato e un’organizzazione terroristica che fa uso della popolazione civile come scudo umano. Di questi casi negli ultimi anni se ne sono verificati molti: Hamas a Gaza, ISIS in Siria e Iraq, i Talebani in Afganistan per citare i più noti. In questo momento nessun organismo internazionale ha provato a definire e codificare situazioni di questo genere per capire dove si trova il confine legale tra un’azione militare e un uso “sproporzionato” della forza. Sicuramente si può affermare che Israele, di tutti gli Stati, oggi, coinvolti in guerre asimmetriche è quello che ha posto le maggiori attenzioni per ridurre le vittime civili.

Comunemente si pensa, perché cosi lasciano intendere i politici e gli “esperti”, che se una delle due parti in guerra subisce più vittime civili è la vittima, mentre l’altro diventa inevitabilmente, colpevole di uso “spropositato” della forza a prescindere dalle ragioni o dai torti, ma non è così per il diritto internazionale, perché bisogna tenere in considerazione i molti fattori (non il mero numero dei morti), adottati dagli eserciti per ridurre al minimo le vittime civili durante gli scontri tra cui tutti i dispositivi per assicurare la difesa dei civili.

Per il diritto internazionale l’uso proporzionato della forza è la forza militare necessaria per raggiungere un obiettivo militare che non deve essere superiore all’obiettivo posto. Se riduciamo la legalità dell’intervento militare al solo numero di vittime di una parte o dell’altra dicendo che ha “legalmente ragione” chi ha subito più morti a prescindere dal fatto di chi è l’aggressore o l’aggredito o se ha utilizzato dei civili come scudi o ha fatto di tutto per proteggerli, possiamo affermare senza tema di smentita che la Germania di Hitler e il Giappone di Hirohito avevano ragione e gli USA e gli alleati torto.

La qualifica “uso sproporzionato della forza” relativamente alla reazione di Israele ai lanci di razzi da parte di Hamas durante l’ultimo conflitto nella Striscia, quello del 2014, o durante la risposta di Israele ai tentativi di penetrazione all’interno dello Stato da parte di miliziani di Hamas e della Jihad Islamica, durante la cosiddetta Marcia della Pace del 2018, non solo è estremamente problematica, considerata la modalità dell’aggressore di utilizzare i civili come scudi umani o di farsi schermo della popolazione, ma viene abitualmente usata in modo del tutto strumentale.

 

 

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