Per quanto alto sia il prezzo pagato da Israele agli Emirati arabi in vista di una futura collaborazione su vari fronti, la rinuncia (inutile chiamarla sospensione) a estendere la propria sovranità sul 30% dei territori della Cisgiordania, è indubbio che questo accordo segni un successo diplomatico sia per Israele che per gli Stati Uniti.
Nel novembre del 2019, l’amministrazione Trump aveva ridefinito lo status degli insediamenti in Cisgiordania, considerandoli correttamente come non in violazione della legge internazionale e modificando, in questo modo, per la prima volta, la posizione consolidata degli Stati Uniti che ebbe Jimmy Carter quale apripista nel 1978. Successivamente, si inaugurò per Israele la prospettiva di potere estendere la propria sovranità su una porzione della Cisgiordania.
Benjamin Netanyahu colse subito l’occasione per annunciare in campagna elettorale che, qualora fosse stato nuovamente eletto avrebbe dato seguito all’operazione. Di fatto, la strada si presentò presto accidentata, con Washington che mise il freno, e a luglio, quando Netanyahu avrebbe dovuto passare ai fatti, l’estensione di sovranità era già stata congelata.
La questione non è più all’ordine del giorno. La novità è l’apertura degli Emirati nei confronti di Israele, già preparata nei mesi scorsi da una serie di incontri e scambi tra i vari potentati della costellazione sunnita, Washington e Gerusalemme. Parigi vale bene una Messa, Abu Dhabi vale bene l’estensione della sovranità sulla Cisgiordania.
A conferma di ciò giungono le parole del principale garante dell’accordo con gli Emirati Uniti, Donald Trump:
“Israele è d’accordo nel non procedere. Più che archiviare la questione, hanno deciso di non procedere, e penso che sia molto importante, ritengo si tratti di una grande concessione da parte di Israele”.
Sì, indubbiamente una grande concessione. In cambio di cosa? Di una legittimazione che non è determinata da una accettazione maturata negli anni e sfociata nel riconoscimento della legittimità esistenziale dello Stato ebraico, ma sulla base del comune coagularsi sunnita in funzione antisciita. Nel momento in cui il regime iraniano sarà caduto, solo allora, si potrà valutare la consistenza di questo avvicinamento, la sua reale fibra.
Per la rinuncia dell’estensione alla sovranità, il decoro politico suggerisce il termine soft “sospensione”, rende la pillola meno amara, soprattutto per chi desidera crederci. “Non posso parlare di un periodo specifico nel futuro” ha dichiarato il presidente americano a proposito della fine della “sospensione”. Tradotto, l’estensione di sovranità è spedita nel limbo.
Se il prezzo pagato da Israele per l’accordo con gli Emirati è molto alto e richiesto esplicitamente dal loro portavoce a Washington, Yousef Al Otaiba, con un pezzo fatto pubblicare a giugno su uno dei principali quotidiani israeliani, Yedioth Ahronoth, l’incasso immediato (quello futuro lo si vedrà) in termini di immagine e consenso è apparentemente lucroso.
Oltre a conferire a Israele una nuova legittimità regionale isola ulteriormente l’Autorità Palestinese e circoscrive in modo netto il perimetro dei nemici: l’Iran, il Qatar, la Turchia e le sigle del terrore, Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah. L’intesa consolida la strategia americana del progressivo riavvicinamento sunnita agli Stati Uniti dopo la parentesi di Obama, cominciato fin da subito, quando Riad fu la destinazione privilegiata di Donald Trump durante il suo primo viaggio all’estero.
Donald Trump può apparire come lo scafato negoziatore che ha predisposto il venire in essere dell’intesa e Benjamin Netanyahu, ultimamente assai in affanno, come il suo contraltare. Soprattutto il secondo, in un momento di marcato calo di consensi aveva sicuramente bisogno di un rilancio. Tuttavia, per Netanyahu, l’archiviazione della promessa di estendere la sovranità, lo smarca ulteriormente dalla parte dell’elettorato che gli aveva dato credito e dalla componte politica interna ed esterna al Likud, tutti in attesa di quella che Naftali Bennett ha definito, “Una occasione storica mancata”.
Nel mentre i nodi in Cisgiordania restano ancora ben stretti. Gli Emirati sono per una riapertura dei negoziati che ostinatamente Abu Mazen ha bloccato senza sosta, gli oltre 400 mila residenti israeliani degli insediamenti vedono allontanarsi in un tempo indefinito la loro regolarizzazione, e lo Stato palestinese incombe sullo sfondo con una fisionomia del tutto incerta.