Il 5 agosto scorso su questo giornale abbiamo dato conto di una singolare iniziativa. Alla Farnesina accadde che un viale cambiò nome. Da “Viale del Ministero degli Esteri” si trasformò in “Viale dei Giusti della Farnesina”.
Tra i promotori di questa iniziativa lodevole, o forse è meglio dire, per conferirgli la luce meritata, il promotore di questa iniziativa lodevole, Gabriele Nissim, ringraziò il ministro degli Esteri Luigi Di Maio “Per avere dato, insieme a noi, il via a questo importante progetto. Con l’allargamento del concetto di Giusto dalla Shoah a ogni situazione di crisi umanitaria abbiamo innestato un percorso che nessuno aveva mai immaginato nel mondo”.
Per Gabriele Nissim, sempre prodigo nell’avanzare la causa del bene, il concetto di “Giusto”, così specificamente ebraico, deve essere allargato umanitariamente ( il bene, si sa, non conosce confini, come il male). In ossequio allo spirito del tempo deve abbracciare tutti indistintamente.
Bisogna uscire dal recinto troppo angusto di definizioni parrocchiali, di specificità etniche che rischiano di creare divisioni e gerarchie, l’ecumenismo dei Fratelli Tutti ci indica la strada. Strada sulla quale è meglio che si incammini anche la Shoah, per non renderla troppo esclusivamente autarchica. Ma il problema non è il recinto intorno alla Shoah, come la siepe intorno alla Torah, il problema è che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
C’è, infatti, tutta una scuola di pensiero all’interno dell’ebraismo progressista ma anche fuori di esso, tra i gentili, per la quale la memoria della Shoah è troppo totemica, feticistica, e anche qui, come nel caso dei giusti, bisognerbbe allargare il concetto, de-monumentalizzarlo. In questo modo, sì, il genocidio degli ebrei è stato sicuramente un evento capitale nella storia degli orrori umani, ma…ecco ma, evitiamo di trasformarlo in teologia, come ha fatto, imperdonabilmente Emile Fackenheim. Nell’epoca che segue o consegue al pensiero debole, bisogna congedarsi dalle strutture forti.
Sul sito di Gariwo, creatura di Nissim, in quella che è la sua pagina iniziale dal titolo Carta della Memoria, la responsabilità della memoria nel nostro tempo, si può leggere che:
“La memoria della Shoah (un non precedente nella storia, come scrive lo storico Yehuda Bauer), ha avuto un ruolo fondamentale per fare conoscere la singolarità di un genocidio che si proponeva di eliminare gli ebrei non solo in un territorio, ma in ogni luogo della terra con una ideologia di pura fantasia che considerava gli ebrei gli elementi corrosivi di tutta l’umanità”.
I conti sembrano tornare. La Shoah è indicata come “un non precedente nella storia” ( brutta traduzione dall’inglese unprecedented che andrebbe tradotto con “inaudito” o “senza precedenti”) secondo la definizione di Yehuda Bauer e ne viene specificata la “singolarità”. Sennonchè, poco dopo, i conti cominciano già a non tornare più, ed è, dove si legge:
“In primo luogo sembra prevalere una lettura identitaria e rituale della Shoah che, come osservava Marek Edelman, rischia di fare venire meno il suo carattere di insegnamento universale. Quando il vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia si recò a Sarajevo per mostrare la sua solidarietà ai bosniaci lanciò un monito di grande attualità. Quanto era accaduto agli ebrei non solo non si doveva più ripetere per gli ebrei, ma doveva diventare un principio morale nei confronti di qualsiasi popolo minacciato”.
La pietra di inciampo è “lettura identitaria” che evoca chiusura e settarismo. Vogliamo davvero metterla a confronto con il respiro e l’apertura dell'”insegnamento universale”? Eppure, nonostante la preoccupazione di Marek Edelman (il quale, a questo punto avrebbe anche dovuto preoccuparsi dei rischi di una lettura identitaria della Torah e del Talmud), Yehuda Bauer ha identificato la Shoah come un evento “senza precedenti nella storia”, dunque come qualcosa di così specifico e singolare che non può essere paragonato a casi analoghi.
Ma ormai la linea assunta è questa. Non importa se è in contrasto con ciò che è stato appena affermato. Si procede lancia in resta:
“Spesso a livello internazionale si manifesta una concorrenza tra le memorie particolari (Shoah, genocidio armeno, Gulag) che non solo interpreta i genocidi e i totalitarismi come se fossero mondi a parte e dunque non ci fosse invece un elemento comune, anche nella loro specificità, ma che qualche volta spinge alcuni a creare delle classifiche inutili su un dolore più grande. Le recenti affermazioni di Yehuda Bauer sono di grande spessore: ‘Non c’è differenza tra la sofferenza degli ebrei, dei tutsi, dei russi e dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi popolo che si sia trovato in un omicidio di massa genocidario. Non esiste una gradazione nella sofferenza, non esiste una tortura migliore di un’altra tortura, un omicidio migliore di un altro omicidio di bambini, uno stupro di massa migliore di un altro e non esiste dunque alcun genocidio migliore di un altro. L’idea di competizione non è solo ripugnante, ma totalmente illogica’”.
E qui, sulle affermazioni “di grande spessore” dello storico israeliano occorre fermarsi un attimo, perchè così come vengono riportate sembra che il suo pensiero conclusivo sulla questione sia questo, solo che non è così. Si tratta, infatti, di un pensiero monco perchè ciò che Bauer dice nella sua interezza è altro. Cosa dice Bauer sviluppando il suo ragionamento?
Queste parole:
“Se l’Olocausto o situazioni simili all’Olocausto, si possono ripetere, e i genocidi si sono ripetuti dopo la Seconda guerra mondiale, allora l’Olocausto è il più estremo caso di genocidio di cui abbiamo conoscenza. Non è estremo nei termini della sofferenza, la sofferenza è la medesima dappertutto, ma nei termini dell’analisi di ciò che accadde. I genocidi accadono anche agli altri, siano tutsi, cambogiani, bosniaci o chiunque altro. Non sto cercando di fare un’analogia, perchè non è la stessa cosa. Il caso estremo è l’Olocausto, in questo senso esso diventa un concetto universale, un problema universale…una questione per tutta l’umanità” (An interview with Prof. Yehuda Bauer, 48/58 Shoah Resource Center, The International School for Holocaust Studies, 1998)
Dunque, Bauer dice esattamente il contrario di ciò che gli si vorrebbe fare dire, che non ci sarebbe una sostanziale differenza tra la Shoah e i genocidi subiti dagli altri popoli, perchè alla fine, la sofferenza comune li renderebbe tutti uguali, come le vacche nella notte nera, ma, che la Shoah è il paradigma dei genocidi moderni, “Il caso estremo è l’Olocausto”. E’ appunto questo suo statuto paradigmatico che lo rende declinabile in senso universale, ovvero proprio la specificità identitaria che secondo Marek Edelman rischierebbe di impedirglielo.
Questo concetto, Yehuda Bauer lo ha reiterato spesso, ma non è, evidentemente consono alla linea programmatica esposta dalla Carta della Memoria, in cui, è l’universale che deve imporsi e il particolare deve adeguarsi.
In realtà, se al di là dell’evidente intento di strumentalizzare le parole di Bauer per portare acqua al proprio mulino, si procedesse con sufficiente claritas e perchè no? caritas intellettuale si dovrebbe affermare che l’obbiettivo da raggiungere non è “creare una coscienza globale e universale nei confronti di tutti i genocidi”, (una prospettiva da Comintern) ma mostrare, al di là delle sofferenze terribili subite dalle vittime, come, ogni genocidio, si situi dentro una costellazione di motivi che variano da situazione a situazione e in cui, la Shoah, si staglia per la sua estrema e irriducibile unicità.