La Shoah è sempre più lontana nel tempo. Mentre i testimoni muoiono, il ricordo pubblico dell’evento più aberrante nel secolo scorso viene affidato a produzioni editoriali e cinematografiche prive di sensibilità e di autentica dimensione memorialistica. All’avvicinarsi della Giornata della Memoria, le librerie e i supermercati si riempiono di narrativa sullo sterminio degli ebrei, ormai ridotto a sottogenere romanzesco insieme al fantasy e al thriller. Si tratta di opere che, invece di avvicinare il lettore alla realtà del genocidio, lo trasformano in contesto o sfondo per storie romantiche o d’avventura.
La memoria della Shoah ha trionfato sull’oblio, ma come tutto ciò che diventa di dominio pubblico, ha ceduto a una inevitabile semplificazione, che eventi come la Giornata della Memoria non riescono ad arginare. Anzi, il ventisette gennaio è diventato esso stesso un vettore del suddetto sminuimento. Assistiamo ormai a una cerimonia stanca, utile solo a riempire i palinsesti televisivi di brutti film sullo sterminio e ad allestire stucchevoli conferenze durante le quali le vittime vengono addobbate di facile retorica, che si compendia in un mortificante «poverini».
La Giornata della Memoria è un rituale lacrimevole, ripetitivo, incapace di concretizzarsi in una riflessione profonda sulla Shoah perché sottomesso alle necessità del teleschermo. Una ricorrenza intrisa di retorica celebrativa e consolatoria, che determina derive banalizzanti e sacralizzanti, due facce della medesima medaglia. La prima spoglia la Shoah dei suoi attributi specifici di eliminazione del popolo ebraico per equipararla ad altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo; mentre la seconda la proietta in una dimensione metafisica e inaccessibile.
Dacché esiste, la Giornata della Memoria non ha reso un buon servizio né alla memoria né alle vittime, che ha museificato nell’ampolloso «Mai Più». Avremmo bisogno, dunque, di una memoria umile, meno sensazionalistica, che accetti di confrontarsi con la complessità della storia. Primo Levi, che andava sovente nelle scuole, vedeva in attività non l’oblio, ma il manicheismo. L’idea di un esito fallimentare della trasmissione della memoria, se alla fine fosse prevalso lo spirito di semplificazione, lo tormentava.
La disfatta della memoria non termina qui. Quale posto avranno le ricerche storiche e le opere di Primo Levi, Jean Améry o Etty Hillesum in una scuola che subisce il culto dell’immediato, della tecnica e reputa oziosa la riflessione storica? Più in generale: è possibile sottrarre il ricordo della Shoah alla macchina vorace e volgarizzante della televisione e dello spettacolo?
La memoria della Shoah deve fare i conti anche con forme di malintesa democratizzazione e apertura all’Altro. Fondatasi sul «Mai Più», ossia mai più esclusione, mai più discriminazione, mai più intolleranza, l’Europa pronuncia la necessità di una accoglienza totale di tutte le vittime e di tutte le sofferenze. Per essere fedeli alla lezione della Shoah bisogna cancellare progressivamente le frontiere. Da qui il rivoltarsi della memoria benpensante contro quella ebraica, che viene accusata di alzare muri e generare esclusione.
Dunque, che fare di fronte a queste sfide? Intanto, bisogna evitare di fare della Shoah una griglia di analisi di tutti gli avvenimenti, pur senza consegnarla a una dimensione astorica; sottrarla alla pornografia del dolore, alla retorica civile, invitando, per quanto possibile, alle buone letture e alla riflessione solitaria. Nel tentativo, probabilmente vano, di indurre le coscienze a guardare questa tenebrosa Gorgone della storia, invece di edulcorarla con l’ennesimo film hollywoodiano.