Pubblichiamo l’intervento che Niram Ferretti ha tenuto oggi a Palazzo Nervi a Savona in occasione dell’incontro “100 anni di Israele in Liguria” a cui ha partecipato l’ambasciatore di Israele, Dror Eydar.
Settantadue anni dopo la sua nascita, il 14 maggio del 1948, Israele continua a persistere come problema. Settantadue anni dopo la sua nascita, settantacinque anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, durante la quale il popolo ebraico ha sperimentato la più grande tragedia della propria storia.
Israele è, ancora oggi, l’unico Stato nato a seguito della catastrofe bellica costata agli ebrei un prezzo inaudito, che una parte consistente dell’opinione pubblica mondiale considera illegittimo. L’unico Stato che una parte altrettanto se non più consistente del mondo arabo e musulmano appoggiato da estremisti di sinistra e di destra e da noti o più o meno noti accademici, scrittori, giornalisti, ritiene non abbia diritto all’esistenza.
“Un piccolo paese di merda”, lo qualificò, nel 2001, Daniel Bernard, l’allora ambasciatore francese a Londra suscitando aspre polemiche e ispirando alla giornalista Deborah Orr sull’Indipendent, un articolo in cui, approvando la definizione di Bernard, spiegava ai lettori che vi è una differenza sostanziale tra antisemitismo e antisionismo perché, “L’antisemitismo è l’avversione per gli ebrei…e l’antisionismo è solo avversione per l’esistenza di Israele”.
Dobbiamo qui fermarci un momento e riflettere. Se questo solo esistenziale non ci fosse, non potrebbe esserci alcun antisionismo, proprio come se non ci fossero gli ebrei non potrebbe esserci alcun antisemitismo, perché in fondo, e con logica consequenziale, si potrebbe dire che “L’antisemitismo è solo avversione per l’esistenza degli ebrei”.
La Orr dunque, senza avvedersene, con l’avverbio solo, entra con i piedi nel piatto del problema mostrandoci come l’antisionismo in quanto rifiuto dell’esistenza di Israele non sia altro che antisemitismo mascherato e mascherato assai maldestramente.
Come ha evidenziato Pierre Andrè Taguieff, uno dei più acuti studiosi francesi di antisemitismo:
“L’anti-sionismo radicale, il cui obiettivo è l’eliminazione di Israele come Stato ebraico, è il nocciolo duro della nuova giudeofobia. È ancora necessario definire con precisione l’antisionismo che qualifico come radicale, assoluto o demonologico”.
Eccoci qui di nuovo nel 2020 appena cominciato, ad affrontare problemi che sembrano insolubili, eccoci qui di nuovo a confrontarci con la questione ebraica, e con chi, ci dice che Israele sarebbe un sopruso nei confronti degli arabi-palestinesi, un anacronismo, qualcosa che non dovrebbe essere.
Infondo nulla di sorprendente, vino vecchio in otri nuovi, odi stantii, ossessioni e fantasmi ululanti che continuano a infestare il nostro presente, a flagellarlo.
Ci sono illustri precursori. Arnold Toynbee considerava il popolo ebraico un fossile, e prima di lui Karl Marx, appunto ne La Questione ebraica, identificando l’ebreo con il Dio denaro prospettava la dissoluzione del giudaismo nella nuova società comunista non più oppressa dalla signoria del capitale.
Molti altri esempi si potrebbero fare ma qui abbiamo presente una costante, l’idea che l’ebraismo sia qualcosa di superato o qualcosa da superare. Si incaricherà il progresso, la parola talismano di tanti fattucchieri, a farlo. E come il progresso eliminerà l’ebraismo, relitto della storia, così esso eliminerà Israele, refuso della storia.
Lo scenario non è cambiato. Non fatevi ingannare, da trucchi, giochi di specchi, speciose e disinvolte distinzioni, dagli abracadabra dei sofisti dell’ultima ora. Chi odia Israele e le sue ragioni, anzi la sua ragione, il suo essere, difficilmente vorrà per gli ebrei il meglio, vorrà per loro un futuro sereno e veramente emancipato, nei limiti di quanto questo possa accadere all’interno dell’esperienza umana.
Già, le ragioni di Israele. Il suo essere, il suo esistere. Ma quali sono queste ragioni? Su cosa si fondano? Quale è la loro forza, la loro persuasione?
Nel 1923 in un suo celebre scritto, Il Muro di Ferro, uno dei maggiori protagonisti del sionismo, Vladimir Jabotinsky riconosceva agli arabi un diritto alla terra nella quale dimoravano, ma, allo stesso tempo, riconosceva agli ebrei un diritto analogo. Il diritto all’immigrazione ebraica, il diritto ad emigrare in una terra con cui gli ebrei, come anni dopo avrebbe sottolineato Gershom Scholem, hanno sempre avuto un rapporto ininterrotto.
In una intervista del 1975 data nella sua casa di Gerusalemme a un giornalista tedesco, il grande intellettuale ebreo, diceva, “Il ricordo che gli ebrei hanno della Palestina è una realtà, le aspirazioni ebraiche all’assimilazione tentarono di combattere questo ricordo, e tuttavia non si è riusciti a cassare Gerusalemme e Sion dalle preghiere ebraiche di 2000 anni“.
La storia è questa eco che giunge da un passato lontano, che risale fino ad Abramo e ad una promessa, la storia racconta di una fedeltà profonda, di un richiamo mai venuto meno, di una appartenenza, di un legame indistruttibile. La storia che altri vorrebbero negare, deformare, annientare. Scipparla, cancellando le tracce della presenza ebraica dal passato del Medioriente come è avvenuto con le due risoluzioni Unesco del 16 aprile 2015 e quindi del 16 ottobre 2016, quando Israele viene espropriato nominalmente del Kotel hamaravi (il Muro Occidentale) e del soprastante monte del Tempio, da sempre il sito più sacro per l’ebraismo. A queste risoluzione seguirà poi ai primi di maggio del 2016 una ennesima risoluzione la quale rifiuta a Israele qualsiasi legittimità su Gerusalemme.
Tutto ciò si iscrive nel tentativo di rimozione di Israele da parte islamica, (che si articola sia sulla sua delegittimazione storico-politica, sia sulla volontà di annientarlo fisicamente), con l’appoggio consistente di una buona parte dell’élite politica europea e dei suoi addentellati accademici e massmediatici (con una parallela controparte nel mondo accademico nordamericano), per la quale, lo Stato ebraico non sarebbe altro che un misfatto.
Eppure, nonostante tutto questo, la verità dei fatti continua a resistere alle manipolazioni. Israele non è solo memoria, appartenenza, legittimità per ogni ebreo nel mondo di trovare una casa là dove la storia del proprio popolo è nata, Israele è anche salvaguardia e tutela, unità, è la scommessa ancora difficile, ancora travagliata, contro quelle forze che, come una bufera, e nel Novecento una bufera annichilente, si sono rovesciate contro il popolo ebraico.
Questo era ciò che fu chiaro a Herzel, a Jabotinsky, a Ben Gurion (al di là, per quanto riguarda gli ultimi due, delle loro accentuate differenze di vedute).
A loro fu chiaro come è chiaro ad ogni israeliano oggi, che il popolo ebraico non è, no, un fossile come pensava Toynbee, non è una forma dell’alienazione come pensava Marx, ma è un presente sempre in cammino, verso il futuro che lo chiama da lontano, che lo invita a proseguire nelle avversità, nelle tempeste, nei travagli.
Israele è dunque una scommessa contro le forze della morte e della distruzione, contro chi, oggi, come ieri, l’Iran, il maggiore pericolo per la stabilità mediorientale, vorrebbe distruggerlo.
Dobbiamo dire una cosa e dirla con una sicurezza perentoria, che Israele esiste e può esistere solo in virtù dell’essersi potuto difendere e del sapersi difendere. E questo, a rifletterci un momento, è sgomentevole. Così come è sgomentevole che ancora oggi, nel terzo millennio, davanti alle sinagoghe, a luoghi ebraici, vi siano copiose le forze dell’ordine, a proteggerli. E’ sgomentevole che ci sia questa necessità, che gli ebrei, nei paesi in cui vivono debbano ancora proteggersi, e che debbano farlo massimamente nel loro Stato.
Eppure questo è quello che la storia ci dà ed è inutile girarci intorno o dolerci più di tanto, bisogna guardare la realtà e guardarla in faccia prendendo le misure necessarie. Tutto ciò era evidente a Moshe Dayan nel 1956 quando pronunciando l’elogio funebre del soldato Roi Rothberg, diceva, “Noi sappiamo bene che, per ridurre al loro nulla la loro speranza di annientarci, bisogna che siamo armati e sul chi vive, dal mattino alla sera”. E sarebbe stato ancora più evidente nel 1967 e poi nel 1973 e successivamente con le due Intifade, la più terribile, quella del 2000-2005, quando, con implacabile regolarità, i Signori della morte davano ordine ai loro sicari di uccidere sugli autobus, nei locali, nei ristoranti, per la strada, cittadini israeliani, civili e militari. E li uccidevano, li mutilavano, unicamente perché erano lì dove, secondo l’estremismo islamico, gli ebrei non avevano, non hanno, il diritto di essere, di stare. Questo è esplicitato chiaramente nello Statuto di Hamas del 1989 all’Articolo 6, dove possiamo leggere che Hamas, “Innalzerà la bandiera di Allah su ogni metro quadro della Palestina” poiché “Non c’è soluzione per il problema palestinese se non il jihad”.
Dunque, Israele è la testimonianza di cosa significa perseverare e costruire e investire nel futuro malgrado le avversità. E questa è una costante ebraica.
Non c’è stato un giorno in cui, prima della sua fondazione e successivamente ad essa, Israele non abbia cercato di trovare un accordo con i suoi vicini arabi e non c’è stata guerra che Israele non abbia combattuto unicamente allo scopo di difendersi.
E questo è accaduto per un motivo molto semplice. A causa di un rifiuto. Perché a monte di tutto c’è un rifiuto. Lo stesso rifiuto che qui in Europa, per secoli, ha fatto degli ebrei il capro espiatorio, il simbolo del male.
Ecco, Israele è lì che si oppone a questo rifiuto. E questa, infondo è la sua ragione fondamentale. Quella più granitica. Lo fa guardando avanti, progettando, investendo, lo fa credendo che, nonostante tutto, il presente continuerà ad avanzare giorno dopo giorno verso un tempo di pienezza. E’ questa la sua forza più profonda e la sua testimonianza più vibrante.