Nel corso del XIX secolo il Libano era stato scosso da violenti scontri interreligiosi fra i cristiani maroniti e i drusi, provocando vere e proprie guerre civili. Nella primavera del 1975 lo scontro si riaccese a causa della presenza dei profughi palestinesi nella città di Beirut e nel sud del Libano, da dove venivano organizzati attacchi e attentati antisraeliani. Lo Stato ebraico decise quindi di intervenire direttamente in territorio libanese con l’operazione militare Pace in Galilea, tesa a diminuire la minaccia dei fedayn ai confini settentrionali.
L’operazione militare si allargò, trasformandosi in una vera e propria guerra, dai risvolti inaspettati rispetto ai proponimenti del Governo israeliano. All’interno di un quadro estremamente complesso, si inseriscono le tragiche vicende dei campi profughi di Sabra e Chatila, in cui le truppe cristiane maronite, nella notte fra il 16 e il 17 settembre, operano una strage della popolazione civile palestinese, mentre l’esercito israeliano, impegnato a garantire la sicurezza della città di Beirut, non aveva prestato molta attenzione agli intenti vendicativi delle milizie cristiane sue alleate.
La guerra del Libano e le immagine delle stragi di Sabra e Chatila ebbero un impatto mediatico molto significativo, tanto da coinvolgere, e sconvolgere, l’immagine stessa dello Stato d’Israele nell’opinione pubblica europea.
La percezione dello Stato ebraico nell’immaginario collettivo italiano aveva iniziato a cambiare dalla fine degli anni Sessanta, quando vi era stato un crescente utilizzo di stereotipi propri dell’antiebraismo e dell’antisemitismo per definire Israele e la sua politica nei confronti dei palestinesi, venendosi così a creare “un’area di incontro tra antisemitismo e antisionismo”. È interessante altresì rilevare come in una parte dell’opinione pubblica italiana si fosse formato un fronte compatto, costituito da partiti politici, sindacati, studenti e alcuni settori della Chiesa cattolica, che non considerava più lo Stato ebraico come un alleato nella comune lotta antifascista e alla luce della memoria della persecuzione razziale, bensì come la longa manus dell’imperialismo americano in Medio Oriente.
La guerra del Libano segnò una cesura rispetto all’atteggiamento che contraddistinse l’opinione pubblica durante la guerra dei Sei Giorni, infatti, nei commenti e nelle analisi contenute nelle pagine dei quotidiani italiani si possono rintracciare stereotipi e pregiudizi tipici della retorica antiebraica. Inoltre, riaffiorarono prepotentemente gli antichi stereotipi di matrice religiosa, con rimandi alla diversità degli ebrei, attraverso una particolare insistenza sull’elezione del popolo ebraico e sull’immagine di una divinità ebraica brutale e irosa.
Nell’intenso dibattito giornalistico che si sviluppò durante la guerra del Libano, si può osservare la nazificazione di Israele; le vittime del passato, gli ebrei, sono considerati i carnefici dei palestinesi nel presente, instaurando simmetrie tra le persecuzioni razziali dei regimi totalitari e l’oppressione del palestinesi e comparazioni fra la violenza dell’esercito dello Stato ebraico e le pratiche di sterminio attuate dai nazisti. Questo modo di leggere gli eventi della guerra del Libano non fu una caratteristica esclusiva della stampa italiana, bensì fu propria di tutti i media dell’Europa occidentale. La stampa italiana cedette alla retorica delle “vittime che si fanno carnefici”, dei sionisti come nazisti.
È altresì interessante notare come l’uso di questa equivalenza potesse essere molto variegato; infatti, si riscontra anche in alcuni giornali cattolici italiani, subito dopo la nascita di Israele, un raffronto tra le violenze dell’esercito israeliano e quelle attuate dai nazisti.
Gli unici quotidiani che si distinsero non seguendo questa linea editoriale furono “Il Giornale” di Indro Montanelli, il “Secolo d’Italia” e “Il Resto del Carlino”, spinti su posizioni più favorevoli allo Stato ebraico da un orientamento filoamericano e da un certo sentimento antiarabo.
Il parallelismo fra nazismo e sionismo, inconcepibile dal punto di vista storico, trovò un enorme eco durante la guerra del Libano, nonostante fosse nato precedentemente con le dichiarazioni della dirigenza sovietica durante la guerra dei Sei Giorni, quando, nel noto discorso del 5 luglio 1967, Brežnev aveva affermato che gli israeliani con “le loro atrocità sembrano voler copiare i crimini dell’invasore hitleriano”. L’analogia fu poi ampiamente ripresa da parte araba e palestinese negli anni successivi.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale un sentimento di assoluto rigetto della guerra aveva iniziato ad espandersi nell’opinione pubblica italiana, conoscendo un’ulteriore rafforzamento all’inizio degli anni ottanta, anche in relazione alla diffusione di una sensibilità pacifista nelle maggiori compagini politico-culturali. Inoltre, vi era un timore diffuso che sconvolgimenti bellici nell’area mediorientale portassero al deflagrare di un conflitto diretto fra le due superpotenze, con una conseguente guerra nucleare. Ciò spiega, in parte, perché la società italiana era così incline a parteggiare per le vittime deboli e indifese di fronte ad un aggressore potente e determinato. Queste considerazioni aiutano a comprendere il contesto culturale in cui si andò ad inserire la guerra del Libano.
È importante, tuttavia, considerare che lo sdegno diffuso tra l’opinione pubblica italiana non può essere interpretato esclusivamente con il rigetto della guerra, piuttosto emerge la difficoltà di trattare il tema nazismo-ebrei-Israele alla luce della contrapposizione standard fascismo-antifascismo. La forza militare e la determinazione dello Stato ebraico avevano messo in discussione nell’immaginario collettivo la figura dell’ebreo come vittima per antonomasia, inoltre, la vittoria elettorale del partito di destra Likud e le politiche di occupazione seguite alla guerra dei Sei Giorni rendevano problematica la collocazione dello Stato ebraico fra le ideali democrazie antifasciste. Tematiche interconnesse come l’immagine dell’ebreo, il nodo fascismo-antifascismo e la memoria dello sterminio, erano ripensate e, talvolta, drammaticamente rovesciate, tanto da non poter essere solo una casualità che proprio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta iniziasse a diffondersi il negazionismo.
Secondo lo storico Pierre Vidal-Naquet con il conflitto libanese “l’innocenza d’Israele era morta”, necessariamente un intero sistema simbolico era collassato, comportando sgomento, ma allo stesso tempo un senso di liberazione dalla colpa per gli eredi dei persecutori degli ebrei. Al contempo, nuovi paradigmi storici per la trattazione della Shoah stavano diffondendosi sia in Francia, con gli storici negazionisti, sia in Germania, dove si stava sviluppando un’analisi auto assolutoria dello sterminio.
A titolo esemplificativo del clima culturale e politico esistente nel 1982 in Italia, sono degne di nota le parole del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che, in diverse occasioni, costruì l’immagine dei palestinesi come “nuovi ebrei” e di Israele non più vittima ma carnefice. Il discorso tenuto dal Presidente all’inaugurazione della Conferenza Interparlamentare il 14 settembre 1982, di cui i giornali riportarono ampi stralci, concorre a trasmettere all’uditorio l’analogia, divenuta onnipresente nella stampa italiana del periodo, fra nazisti e israeliani; infatti, rivolgendosi al popolo ebraico, commentava “noi esprimemmo la nostra fraterna solidarietà quando esso era crudelmente perseguitato dai nazisti. Un mio fratello nel lager di Flossenburg ha condiviso con gli ebrei persecuzioni e una morte orrenda. Perché mai giungere a questa aggressione biasimata anche da gran parte del popolo d’Israele? I palestinesi sono oggi costretti allo stesso triste esodo cui fu costretto secoli orsono il popolo d’Israele. Anch’essi, come gli ebrei d’allora, debbono lasciare la terra dei padri e andare randagi per il mondo”.
La similitudine con il periodo della Seconda guerra mondiale ricorre molto spesso nei titoli e nei commenti della stampa, senza differenze sostanziali fra quotidiani di ispirazione moderata e quelli di area comunista. La retorica delle “vittime che si fanno carnefici” fu veramente pervasiva, ottenendo un consenso e un eco mai raggiunti in precedenza.
Dei commenti e dei resoconti dei quotidiani italiani colpisce la durezza dei toni; per esempio, Valentino Parlato, nel fondo pubblicato sulla prima pagina de “Il Manifesto”, titolava Israele tenta il genocidio, in occasione dell’inizio dell’operazione Pace in Galilea. L’articolo cominciava denunciando l’inizio di un’altra guerra, “durissima, da soluzione finale (“un settembre nero” tecnologizzato) con le colonne corazzate d’Israele che- alla Guderian- invadono il Libano”. Pochi giorni dopo il giornalista scriveva di aver trovato delle forti somiglianze fra la cadenza dei discorsi tenuti dal Ministro della Difesa Ariel Sharon e quella degli interventi di Kesserling e di Göering, inoltre, costatava che “il reale obiettivo israeliano non era altro che la “soluzione finale” della questione palestinese: il massacro o la condanna alla diaspora di questi palestinesi, […] i veri ebrei del nostro tempo”. La posizione ufficiale del Partito comunista italiano non si discostava troppo dalla linea editoriale adottata da un giornale militante come “Il Manifesto”, difatti, la dichiarazione pubblica della Direzione all’inizio del conflitto asseriva esplicitamente che la politica israeliana “rasentava il genocidio”.
L’intellettuale e uomo politico Lucio Lombardo Radice riassumeva ciò che stava accadendo con le seguenti argomentazioni: “in forma democratica, e con un voto del parlamento alle spalle, il primo ministro Begin e il ministro della guerra Sharon stanno mettendo in atto a Beirut Ovest la strategia seguita per la liquidazione dei ghetti dell’Europa Orientale nella Seconda guerra mondiale”. Il famoso Fortebraccio, al secolo Mario Melloni, scrisse che Begin e Sharon somigliavano ai nazisti.
Il settimanale “Rinascita” criticò aspramente Israele, considerato la longa manus dell’imperialismo americano, descrivendo gli eventi bellici come “lo sterminio di un popolo”. La stessa azione politica del Primo Ministro Begin fu rappresentata utilizzando formule come nuovo ordine e soluzione finale. Nella stampa termini come massacro, genocidio, soluzione finale e sterminio di un popolo furono usati abitualmente per descrivere l’azione militare e politica di Israele durante l’intero conflitto. Ciò che desta sorpresa, oltre i toni estremamente duri, sono la frequenza e la continua ripetizione dell’accostamento nazisti- sionisti.
Accenti non meni avversi ad Israele sono riscontrabili nel “Corriere della Sera”, ne “La Repubblica” e ne “Il Mattino” di Napoli. Dalle pagine del “Corriere della Sera” e de “La Stampa” emerge anche la similitudine tra la condizione dei palestinesi e quella degli ebrei imprigionati nel ghetti durante la Seconda guerra mondiale; il corrispondente del quotidiano torinese Piero De Garzarolli, descrivendo le procedure di identificazione e arresto dei militanti palestinesi compiute dai militari israeliani, scriveva come fosse “la nemesi dei ghetti, la tremenda vendetta della generazione i cui padri avevano dovuto portare sui vestiti la stella gialla di Davide imposta dai nazisti”. Maurizio Chierici, corrispondente del “Corriere della Sera”, paragonò l’assedio di Beirut alla liquidazione del ghetto di Varsavia e i comandanti dell’esercito israeliano ad Hans Frank, governatore nazista della Polonia occupata. Sulle pagine de “La Stampa” furono pubblicati i commenti, che meritano un’analisi approfondita, di importanti esponenti della cultura italiana, come Luigi Firpo, Alessandro Galante Garrone e Primo Levi.
Lo studioso Luigi Firpo, che conduceva su “La Stampa” la rubrica domenicale Cattivi pensieri, dedicò un articolo al conflitto in corso intitolato significativamente Tradita la legge di Israele. A giudizio di Firpo, lo Stato d’Israele non era nato grazie all’identità ebraica “mai rinunciata, né al generoso sogno sionista, ma al mostruoso eccidio nazista: per il mondo civile l’assurdo storico di un rimpatrio dopo venti secoli ha assunto la concretezza di una riparazione”. Storicamente, Israele non è un risarcimento dei Paesi occidentali agli ebrei per le atrocità della Shoah né una panacea contro l’antisemitismo, esso è il punto di arrivo di un cammino di emancipazione “che porta una parte degli ebrei a pensarsi in termini di collettività a sé, quindi sovraordinata rispetto alle società nazionali d’origine”. Secondo lo studioso, l’unica motivazione per la nascita d’Israele era stata appunto quella forma di risarcimento concesso dagli europei per riparare alla propria colpa, unica giustificazione morale che rendesse plausibile il ritorno in Palestina, quindi, “i veri conquistatori della nuova Sionne sono stati i caduti del ghetto di Varsavia”. Sussisteva però una condizione: “che i perseguitati di ieri a nessun patto si trasformassero in persecutori”. Israele stava tradendo quel patto, dando spazio alle manifestazioni peggiori della propria tradizione culturale, divenendo una Nazione “che si inebria del vino dei forti, come se alla sua testa marciasse il terribile Dio degli eserciti”, dimenticando “gli alti valori morali della sua Legge, la sua esistenza stessa perde ogni senso e il suo futuro sarà scritto ineluttabilmente con lettere di sangue”.
Il tema del tradimento fa da sottotraccia anche al contributo dello storico torinese Alessandro Galante Garrone. Nell’articolo egli scriveva di una società israeliana estranea alla cultura della destra sionista e che anzi sarebbe stata tradita proprio dalla politica del Governo Begin, poiché “Begin non è Israele, non è l’ebraismo; non è neanche questo Israele che abbiamo sotto gli occhi, e che non si può identificare con i suoi frenetici condottieri. Ben Gurion era tutt’altro da Begin; e la sua eredità spirituale e politica sopravvive tenace”. Dal contributo dello storico affiora il disagio della cultura europea di fronte ad una realtà che ha snaturato le sue caratteristiche fondanti, tradendo l’impianto socialista e collettivista delle origini.
Nel giugno del 1982 un gruppo di intellettuali, fra cui Franco Belgrado, Edith Bruck, Miriam Cohen, David Meghnagi e Primo Levi, firmò il noto appello Perché Israele si ritiri, in quanto “democratici ed ebrei” con l’obiettivo di tutelare la democrazia israeliana dalle derive nazionaliste e di sostenere la “convivenza pacifica con il popolo palestinese”. L’intervento aveva anche la finalità di “combattere i germi potenziali di un nuovo antisemitismo che si verrebbe ad aggiungere alle vecchie e mai scomparse tendenze antiebraiche in seno alla società civile”.
La figura di Primo Levi fu in questo periodo al centro dell’attenzione mediatica; infatti, in quei mesi fu pubblicato il suo primo vero e proprio romanzo, Se non ora, quando? dal notevole successo commerciale, tanto che lo stesso Levi espresse in un’intervista a “La Stampa” il timore che tale consenso di pubblico e di critica fosse dovuto alla sua presa di posizione contro la politica israeliana.
L’inquietudine dello scrittore fu esplicitata in un articolo di fondo, molto sofferto, pubblicato su “La Stampa” al rientro da un viaggio ad Auschwitz compiuto insieme ad una scolaresca fiorentina. È importante ricordare che il rapporto di Levi con il sionismo era sempre stato difficile, rimanendo in parte irrisolto, infatti, già dopo la guerra dei Sei Giorni aveva preso posizione criticando lo Stato ebraico. Levi scriveva che il ritorno dalla Polonia e l’inizio del conflitto in Libano avevano coinciso dal punto di vista temporale, cosicché “le due esperienze si sono sovrapposte tormentosamente”. Continuava affermando di provare sdegno per chi “frettolosamente assimila i generali israeliani ai generali nazisti”, ma allo stesso tempo non poteva non costatare come Begin “questi giudizi se li sta tirando addosso”.
Le parole di Primo Levi ci fanno comprendere pienamente la centralità della Seconda guerra mondiale nell’immaginario collettivo; la forza e la violenza dell’esercito israeliano rappresentavano uno shock culturale anche per quegli ebrei che si riconoscevano nella retorica democratica, non solo per quell’opinione pubblica abituata ad associare alla figura dell’ebreo l’immagine della vittima debole e passiva.
I pregiudizi antiebraici riemergenti dalle pagine dei giornali durante la guerra del Libano lasciarono inevitabilmente una traccia nell’opinione pubblica italiana, dando luogo, negli anni successivi, anche ad episodi di violenza antisemita.
Bibliografia
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