Dal nostro inviato in Israele, Niram Ferretti
Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas dopo il lancio di duecento missili verso le comunità che si trovano lungo il confine con Gaza e la massiccia risposta di Israele sulla Striscia, la maggiore dal 2014, è fragile quanto può mai esserlo ogni tregua tra il gruppo integralista islamico e lo Stato ebraico.
Dal 30 marzo scorso, quando cominciò ai confini della Striscia la manifestazione orchestrata da Hamas e mascherata come protesta pacifica culminata il 14 maggio in coincidenza del trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, con l’uccisione da parte di Israele di 62 “pacifici” manifestanti tutti affiliati con l’organizzazione terrorista che dal 2007 controlla Gaza, si è poi giunti agli aquiloni incendiari corredati anche da svastiche che hanno bruciato centinaia di ettari di coltivazioni. Fa tutto parte del medesimo copione.
Hamas ha disperatamente bisogno di rilegittimarsi agli occhi di chi domina e a fronte di un disastro socio-economico che si fa sempre più drammatico nella Striscia. Disastro che è la conseguenza della gestione mafioso terroristica dell’organizzazione, la quale continua imperterrita a utilizzare una parte cospicua dei fondi che le arrivano per armarsi e costruire tunnel. Tutti soldi immancabilmente sottratti alla popolazione, allo sviluppo delle infrastrutture, a un benessere maggiore. Ogni bene che entra all’interno della Striscia dalla parte di Israele e dell’Egitto è una ghiotta opportunità per il mercato nero, per gli ottimi affari che Hamas fa alle spalle dei suoi sudditi.
Prendiamo ad esempio i 30 milioni di litri di diesel fatti arrivare dall’Egitto nel corso di un intero anno e che avrebbereo dovuto essere utilizzati per potenziare la maggiore centrale energetica consentendo di incrementare le ore di elettricità disponibili nella Striscia (attualmente solo 4 al giorno). Di questo ammontare solo 17, 8 milioni di litri sono arrivati alla centrale, 12, 2, milioni sono stati venduti sul mercato nero e i profitti convogliati a scopo militare.
Per non sprofondare nell’assoluta irrilevanza, Hamas non può rinunciare, di tanto in tanto, a mostrare di essere il principale attore palestinese del conflitto arabo-israeliano a fronte di un’Autorità Palestinese ormai completamente screditata. E’ una questione fondamentale di immagine, prima di tutto a scopo interno e poi internazionale. Il consenso si guadagna, infatti, su due fronti politico-mediatici.
In Medioriente Hamas mostra ai palestinesi di continuare a combattere Israele e di offrire martiri per la “causa”, mentre all’estero offrendo “vittime” e non “martiri” può godere della simpatia di chi ama travestire i terroristi con i panni laceri degli “oppressi”, Europa in testa. E’ così, d’altronde, dall’epoca dell’OLP, quando il lord of terror Yasser Arafat veniva ricevuto nelle capitali europee come un combattente irredentista, con, in Italia, Bettino Craxi che giunse, in un memorabile discorso, a paragonarlo a Giuseppe Mazzini.
La realtà, naturalmente, presenta ben altri scenari rispetto a quelli dipinti su i fondali, il principale riguarda la natura stessa del conflitto tra arabi (poi declinatosi strumentalmente come palestinesi) e israeliani. Un conflitto ormai estenuato e conclusosi da anni sul terreno con la vittoria manifesta di Israele. Nessuno dotato di favella può pensare che Hamas, nella Striscia, possa contrapporre la propria esigua forza alla sproporzione militare tecnologica dello Stato ebraico. Nessuno stato arabo può farlo. La storia ha insegnato agli arabi una lezione amara.
Come evidenziato da Daniel Pipes in una intervista pubblicata da L’Informale l’anno scorso, “I palestinesi vivono in un mondo di fantasia”. Una fantasia alimentata dalla propaganda e dal sostegno mediatico dato principalmente loro dell’Europa. Ma i fatti sono più pervicaci dei sogni, e tra questi un fatto emerge chiaro. Se Israele lo volesse, Hamas verrebbe spazzato via con facilità, ma, dopo avere abbandonato la Striscia nel 2005, non ha alcuna intenzione di farsi carico di due milioni di arabi lungo la costa, ha già le sue grane in Cisgiordania. Hamas lo sa di essere funzionale a Israele, e che fintanto che le condizioni permarranno, resterà al governo della Striscia. Un altro conflitto potrebbe costringere Israele a rimuoverlo permanentemente, e non è questo quello che i due contendenti auspicano.
Nel frattempo la Storia si muove sulla testa del gruppo terrorista figliato dai Fratelli Musulmani, si fa in altri luoghi, in altre stanze. Si fa in virtù del coordinamento americano-israeliano con la sponda degli stati arabi, in testa l’Arabia Saudita che ha posto Hamas nella lista delle organizzazioni considerate nemiche del regno, insieme a Hezbollah e Al Qaeda. Si prova a ridisegnare il Medioriente in funzione anti-sciita (oggi il principale finanziatore di Hamas) con un consenso che va da Riad ad Amman al Cairo, passando per gli emirati arabi.
In questo ampio scenario geopolitico, il conflitto arabo-israeliano risulta è il residuo di un’epoca passata, di una storia esausta, ormai accartocciata su se stessa. Hamas è solo una piccola escrescenza, una purulenza passeggera. Per Israele non si tratta di sconfiggerlo, ma di tenerlo a bada e al contempo di mantenere gli occhi bene aperti su sommovimenti circostanti ben maggiori, nella regione più politicamente tettonica del mondo. Sulla Turchia, che cerca di agguantare attraverso il suo proselitismo il Monte del Tempio, ma soprattutto sulla Siria, con alle spalle l’ombra dell’Iran, il nemico principale, il regime da mettere in ginocchio. La convergenza degli sguardi di Donald Trump e Mohammad bin Salman è, in questo senso, la medesima.