Le relazioni tra il Vaticano e Israele – e più in generale tra cattolicesimo ed ebraismo – sono state sempre molto complesse e hanno visto alti e bassi nel corso dei secoli. In particolare la nascita dello Stato di Israele nel 1948 è stata osteggiata dalla curia romana in modo “discreto” ma deciso. A dire il vero, l’opposizione vaticana si era già manifestata in occasione della creazione del Mandato per la Palestina del 1922 voluto dalla comunità internazionale per creare una patria per il popolo ebraico.
Si tratternno qui soltanto le maggiori tappe politiche e diplomatiche che hanno caratterizzato le relazioni tra i due paesi.
La prima tappa importante di questo percorso fu la visita che compì Papa Paolo VI nel gennaio del 1964 in Israele alias Terra Santa. E’ molto indicativo capire come fu organizzato il viaggio del pontefice. Per prima cosa occorre ricordare che all’epoca non c’erano relazioni ufficiali tra i due paesi (il Vaticano ha riconosciuto ufficialmente Israele solo nel 1994) perciò il viaggio fu gestito dalla diplomazia vaticana in maniera alquanto “particolare”. Infatti, il Papa non atterrò in Israele ma in Giordania e da lì si recò in Israele visitando Tel Megiddo, Nazareth e Tiberiade. Durante la sua visita, il Papa non volle incontrarsi con il primo ministro israeliano ma solo con il presidente, tuttavia non nella sua residenza ufficiale, tanto è vero che il viaggio non prevedeva, volutamente, la visita papalr nella parte ovest di Gerusalemme, cioè quella controllata da Israele. Però, al suo rientro in Giordania il pontefice si recò nella parte est della città, all’epoca occupata illegalmente dalla Giordania. Questo non fu, evidentemente, un ostacolo politico.
E’ opportuno sottolineare che la legge giordana vietava espressamente a tutti gli ebrei (non solo agli israeliani) il permesso di accedere a Gerusalemme, contro ogni legge internazionale, oltre che morale e civile. Durante tutta la sua permanenza e i suoi incontri, Papa Paolo VI, non pronunciò mai la parola “Israele”. Una spiegazione ufficiale di ciò non fu mai data però varie fonti riportano la tesi che pronunciando quel termine, avrebbe potuto venire inteso come un riconoscimento de facto dello Stato ebraico.
Occorre aspettare trent’anni dalla visita di Paolo VI per assistere al riconoscimento ufficiale di Israele da parte della Santa Sede. Il riconoscimento fu preceduto il 30 dicembre del 1993 dall’accordo noto come “Accordo Fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele” seguito da un protocollo d’intesa addizionale. Successivamente fu aperta una nunziatura in Israele e un’ambasciata israeliana a Roma. Questo importante passo diplomatico fu la conclusione di un lungo processo politico e diplomatico portato avanti da Papa Giovanni Paolo II. Esso rientrava nel più vasto processo politico che vedeva Israele protagonista della firma degli accordi di Oslo con l’OLP di Arafat e la pace siglata con la Giordania di Hussein nel 1994. Così dopo 45 anni dalla sua fondazione Israele e il Vaticano finalmente allacciarono relazioni diplomatiche ufficiali.
L’accordo fondamentale e le relazioni ufficiali non hanno però risolto completamente le divergenze tra i due paesi e che riguardano principalmente questioni economiche e di proprietà relative a istituzioni, chiese e comunità cattoliche presenti sul territorio israeliano. Nel 1997 fu firmato un ulteriore accordo, il “Legal Personality Agreement”, finalizzato a disciplinare meglio le relazioni e le competenze dei funzionari vaticani accreditati in Israele.
In base a questi accordi fu, inoltre, stabilita una Commissione Bilaterale Permanente incaricata di risolvere i contenzioni ancora aperti. Dopo venti anni di lavori, nel 2017, la commissione produsse una proposta che non ha soddisfatto nessuna delle due parti. Così, ad oggi, le questioni fiscali e quelle relative all’extra territorialità invocate dalla Santa Sede sono ancora aperte.
Prenderemo in esame solamente un punto molto importante uscito da questi accordi, quello relativo all’impegno vaticano di non entrare nelle questioni politiche e diplomatiche di Israele, così come recita il paragrafo 2 dell’Articolo 11 dell’Accordo Fondamentale del 30 dicembre 1993, che si riporta in originale:
“The Holy See, while maintaining in every case the right to exercise its moral and spiritual teaching-office, deems it opportune to recall that, owing to its own character, it is solemnly committed to remaining a stranger to all merely temporal conflicts, which principle applies specifically to disputed territories and unsettled borders.”
“La Santa Sede, fermo restando in ogni caso il diritto di esercitare il suo magistero morale e spirituale, ritiene opportuno ricordare che, per il proprio carattere, è solennemente impegnata a rimanere estranea a tutti i conflitti meramente temporali, tale principio si applica specificamente ai territori contesi e alle frontiere non ancora definite”.
Questo importante paragrafo resterà lettera morta. Infatti, è già del 15 febbraio del 2000 la conclusione del primo accordo politico tra la Santa Sede e l’OLP di Arafat. Arafat fu poi ricevuto da Giovanni Paolo II nel 2001, nel pieno della Seconda Intifada con tutti gli onori di un Capo di Stato.
Dal 2003 iniziò la demonizzazione di Israele da parte del Patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, posizione che non venne mai contrastata dal Vaticano. Mentre è del 2008 il “Kairos Palestine Document” che è una netta presa di posizione politica filo palestinese in aperto contrasto con gli impegni assunti nel 1993, documento mai stato smentito dalla Santa Sede.
Il 17 dicembre 2012, Papa Benedetto XVI, dopo un incontro ufficiale con Abu Mazen, proclamò ufficialmente l’appoggio della Santa Sede all’ingresso della Palestina come Stato osservatore nell’Assemblea Generale dell’ONU. Successivamente, nel febbraio del 2013 il Vaticano riconobbe ufficialmente lo Stato di Palestina, mentre il 26 giugno 2015 venne stipulato un formale accordo tra i “due Stati”. Le relazioni diplomatiche vennero stabilite da Papa Francesco che, nel 2017, autorizzò l’apertura ufficiale dell’ambasciata palestinese presso il Vaticano.
Così, nel volgere di “soli” 12 anni (è bene ricordare che la Santa Sede ce ne ha messi 45 per riconoscere Israele) la posizione del Vaticano è passata da una dichiarata “estraneità a tutti i conflitti temporali” e per di più “specificamente ai territori contesi e alle frontiere non ancora definite” ad una posizione ufficiale completamente schierata in favore della parte palestinese.
Tale posizione merita un’ulteriore considerazione, perché oltre a trovarsi in violazione dell’accordo firmato con Israele, essa viola l’Articolo 24 dei Patti Lateranensi firmati con l’Italia nel 1929 (sono un trattato internazionale) che recita:
“La Santa Sede, in relazione alla sovranità che le compete anche nel campo internazionale, dichiara che essa vuole rimanere e rimarrà estranea alle competizioni temporali fra gli altri Stati ed ai congressi internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace (…)”.
Inutile specificare che Israele non ha mai chiesto l’intervento della Santa Sede. Nonostante ciò, il Ministero degli esteri israeliano e i diversi primi ministri che si sono succeduti non sono mai andati oltre ad un “forte disappunto” per questa continua e sistematica violazione degli accordi sottoscritti.
La posizione vaticana si è palesata anche in occasione delle visite papali che si sono succedute a partire da quella di Giovanni Paolo II nel marzo del 2000. La visita del Papa polacco, così come quelle successive compiute da Benedetto XVI (maggio 2009) e da Papa Francesco (maggio 2014) hanno avuto tutte una caratterizzazione politica e non solo pastorale in aperto contrasto con l’intesa siglata nel 1993. Ma mentre la visita di Giovanni Paolo II ebbe anche toni conciliatori con il popolo ebraico e cortesi nei confronti di Israele, quelle dei suoi successori, soprattutto quella di Francesco, sono ricordate per il contenuto politico decisamente a senso unico.
Durante la sua visita a Gerusalemme, Benedetto XVI non si è volle fermare al museo della Shoah a causa della presenza di una targhetta che evidenziava “il silenzio” di Papa Pio XII durante le deportazioni e lo sterminio degli ebrei europei. In modo particolare si distinse Papa Francesco, al punto di correggere Benjamin Netanyahu in merito alla lingua parlata da Gesù, come se specficare che fosse aramaico invece di ebraico mettesse tra parentesi la sua appartenenza ebraica. Non corresse invece Abu Mazen, quando, durante la Messa celebrata a Betlemme, il presidente dell’Autorita Palestinese si riferì a Gesù come a un “palestinese”. In entrambe le occasioni i due pontefici perorarono la nascita di uno Stato palestinese all’interno dei confini inesistenti del 1967.
In conclusione, le relazioni tra il Vaticano e Israele sono ancora lontane da un vera normalizzazione. Molti passi sono stati compiuti dal 1948 a oggi ma molti di più devono essere fatti affinchè vi sia un reale riconoscimento dello Stato ebraico da parte del mondo cattolico.