Editoriali

Israele e le incognite della presidenza Biden

L’annunciata vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali, nonostante Donald Trump si sia rifiutato di riconoscerla, e sulla quale gravano le accuse, per ora destituite di prove concrete, di una sua illegittimità, cosa significa per Israele?

Nel corso della sua lunga carriera politica, Joe Biden è stato, per otto anni, il vicepresidente di Barack Obama, e come tale ne ha condiviso, inevitabilmente, la politica mediorientale.

Non è un mistero per nessuno che nel corso della sua presidenza, il legame tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu sia stato informato da una reciproca disistima mascherata dalla ritualità diplomatica. Così come non è un mistero che la politica di Obama verso la Stato ebraico sia stata marcatamente sbilanciata a favore delle rivendicazioni palestinesi.

Il culmine di questa politica fu, il 26 dicembre del 2016 la Risoluzione 2334 all’ONU, fatta passare dalla Casa Bianca quando Obama si trovava nel periodo di transizione tra la sua amministrazione e quella di Trump. Il lascito di Obama fu uno dei documenti più politicizzati e avversi a Israele mai promosso dalle Nazioni Unite, una pugnalata alla schiena di cui lo Stato ebraico non si è mai dimenticato.

Difficile che l’annunciato quarantaseiesimo presidente americano ne disconosca l’impianto concettuale, così come è assai difficile che non continui a reputare il JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano siglato da Obama nel luglio del 2015, un ottimo accordo. Le dichiarazioni della vicepresidente in pectore Kamala Harris in merito, durante il suo confronto elettorale con il vicepresidente in carica Mike Pence, non lasciano dubbi. La Harris considera l’avere stralciato l’accordo da parte di Donald Trump un grave errore.

E’ questa, al momento, a quasi tre mesi dall’ingresso  di Joe Biden alla Casa Bianca, la questione che più mette in apprensione Israele relativamente alla futura amministrazione.

Il fulcro della politica dell’amministrazione Trump relativa a Israele è stato l’avere rimesso l’Iran sulla lista degli Stati canaglia, confermando in toto le preoccupazioni in merito di Benjamin Netanyahu, mai considerate da Barack Obama.

Il saldarsi, in questi quattro anni, delle alleanze con i paesi sunniti dell’area da parte americana e israeliana, in testa l’Arabia Saudita con cui Trump ha ricucito dopo lo strappo provocato dalla decisione di Obama di siglare l’accordo con l’Iran, e poi di Israele con gli Emirati e il Bahrein, è stata la logica conseguenza della decisione di Trump di abbandonare l’accordo voluto dal suo predecessore e di sottoporre l’Iran a un duro regime sanzionatorio. Ora, tutto questo rischia di essere messo a repentaglio.

Non solo. Un altro risultato rilevante della politica mediorientale intrapresa da Donald Trump è stato quello di avere spostato ai confini della scena quell’Autorità Palestinese che fino al suo arrivo veniva omaggiata e reputata un interlocutore affidabile e di pari dignità con Israele. Al suo posto Trump ha preferito siglare accordi con potentati arabi di grande consistenza, mostrando a tutti che Abu Mazen e la sua cleptocrazia non sono più nelle condizioni di porre condizioni come hanno fatto in tutti questi anni. Con l’arrivo di Joe Biden e a seguito, ancora, delle dichiarazioni della Harris, “tenderemo la mano ai palestinesi”, Abu Mazen e l’Autorità Palestinese verranno con ogni probabilità riabilitati.

A tutto ciò va aggiunto che tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu si era creato in questi anni un rapporto di profonda intesa basato sulla medesima visione geopolitica del Medio Oriente. Per Netanyahu, Trump era quasi un alter ego. Un’intesa unica che non ha alcuna possibilità di ricrearsi con Biden.

Il rapporto di Israele con la futura amministrazione Biden (a meno di clamorosi colpi di scena che azzoppino la presidenza prima del suo effettivo insediamento), si annuncia gravido di incognite.

 

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