Un’analisi dei trattati di pace che Israele ha firmato con Egitto e Giordania oltre che gli accordi sottoscritti con i palestinesi, può essere uno strumento utile per capire come lo Stato ebraico è percepito dagli ex nemici nonché dai diversi garanti internazionali – in primis gli USA – dei trattati e degli accordi stessi.
Per meglio contestualizzare questa analisi è opportuno ricordare in termini generali come sono sempre stati gestiti, storicamente, i trattati di pace e il rapporto tra i paesi vincitori e i paesi vinti. Non è certo un’esagerazione affermare che i vincitori abbiano sempre “imposto la pace” e le relative condizioni ai vinti. Si sono visti, nel corso dei secoli, dei trattati di pace, più o meno duri, imposti ai vinti fino ad arrivare a veri e propri diktat come fu il caso della celebre pace di Versailles (1919) imposta alla Germania sconfitta. A questa regola universale vi è, come vedremo, una singolare eccezione: Israele. Infatti, ad Israele sono state – sempre – imposte le condizioni della pace come se fosse in qualche modo la causa delle guerre subite o perlomeno la parte sconfitta nelle medesime.
La pace con l’Egitto
Prima di cercare di analizzare in estrema sintesi il risultato della pace uscita dagli Accordi di Camp David del 1978, tra Egitto e Israele (con la mediazione dell’amministrazione americana del presidente Carter), sarà utile ripercorrere brevemente le guerre che hanno coinvolto i due paesi.
Fin dalla proclamazione della sua indipendenza nel 1948 Israele fu vittima dell’aggressione dell’Egitto – oltre che di altri numerosi paesi arabi – che ne invase il territorio e ne occupò una parte (la striscia di Gaza). Seguì la guerra del 1956 causata dai continui attacchi partiti dal territorio egiziano e dalla chiusura del canale di Suez alla navigazione civile israeliana in violazione del trattato internazionale del 1888 sottoscritto dall’Egitto stesso. Nel 1967 scoppiò il terzo conflitto tra i due Stati a causa delle rinnovate violazioni egiziane (blocco del canale di Suez, blocco dello stretto di Tiran e militarizzazione del Sinai in violazione degli accordi di cessate il fuoco del 1956). Infine la quarta guerra – la guerra di Yom Kippur – nell’ottobre del 1973, anche questa causata dall’aggressione egiziana.
Alla fine di tutti questi conflitti, la situazione sul terreno vedeva Israele come vincitore di tutte le guerre che aveva subito da aggredito e in possesso di tutta la penisola del Sinai egiziano (occupata legalmente secondo le norme del diritto internazionale). Quindi, secondo la logica che vede i vincitori in posizione di forza sui vinti, Israele si sarebbe dovuto trovare in posizione teorica di vantaggio nelle successive trattative di pace.
A Camp David, invece, fin dalla prime battute degli incontri bilaterali e trilaterali tra il premier israeliano Begin, il presidente egiziano Sadat e il presidente americano Carter, fu evidente che la posizione di Israele risultava essere di debolezza e ogni sua richiesta veniva vista dal presidente americano come una posizione “intransigente”.
In pratica, Israele, il vincitore delle guerre nonché l’aggredito dovette fare tutta una serie di concessioni territoriali e politiche, cosa che normalmente è richiesto allo sconfitto, in cambio del suo mero riconoscimento e di una pace di fatto imposta. Gli egiziani avevano anche chiesto delle riparazioni per danni di guerra, per una guerra che loro stessi avevano causato. Almeno su questo punto gli americani si opposero.
In conclusione chi ottenne i vantaggi del vincitore fu senza dubbio l’Egitto.
La pace con la Giordania
Rotto il ghiaccio con l’Egitto, il secondo paese che firmò un trattato di pace con Israele fu la Giordania nel 1994. Tra Giordania e Israele furono combattute due guerre: nel 1948 e nel 1967. In entrambi i casi furono i giordani ad attaccare Israele. La sconfitta giordana nel 1967 portò alla riconquista di Israele dei territori di Giudea e Samaria (Cisgiordania) annessi illegalmente dal regno hashemita nel 1950. Queste trattative di pace andarono un po’ meglio per Israele rispetto a quelle con l’Egitto. In questo caso, Israele, riuscì a mantenere i territori – che il diritto internazionale già gli aveva assegnato – a fronte di diverse concessioni ai giordani: vantaggi idrici, zone economiche sviluppate con tecnologia israeliana, riconoscimento ufficiale da parte di Israele dello “statuto speciale” di custode dei luoghi sacri dell’Islam sul Monte del Tempio con le sue enormi implicazioni politiche e legali. In cambio della pace, la Giordania di fatto “concedeva” il riconoscimento di Israele a dei territori che non gli erano mai appartenuti.
Gli Accordi di Oslo
L’ultimo capito della diplomazia della pace sono stati gli Accordi di Oslo del 1993-1995 con i palestinesi. Questi accordi che dovrebbero portare alla pace con i palestinesi sono ancora in divenire quindi è difficile capire se hanno raggiunto il loro punto più basso o se ci saranno ulteriori sviluppi negativi.
E’ opportuno anche qui fare una veloce presentazione storica per inquadrare la cornice degli accordi per capire come si sono presentati i due interlocutori.
La convivenza tra ebrei e arabi (soprattutto quelli che a partire dagli anni Sessanta si sono definiti palestinesi) è sempre stata difficile. Soprattutto a partire dal 1922, quando il diritto internazionale, tramite il Mandato Britannico per la Palestina del 1922, assegnò agli ebrei una porzione di territorio in Medio Oriente (delle dimensioni dell’Emilia-Romagna) per realizzarvi uno Stato, nel contesto più ampio della risistemazione dell’area (delle dimensioni dell’Europa occidentale) appartenuta all’Impero ottomano e che vide la creazione di una decina di Stati arabi. Gli arabi rigettarono questa decisione. Iniziò così un conflitto che alternava fasi più o meno intense. Un primo e concreto piano di divisione territoriale del Mandato– senza dimenticare che già il 1922 aveva visto la divisione contestuale alla sua nascita del Mandato in due: una parte ebraica e una parte araba – fu tentato dagli inglesi nel 1937 con la Commissione Peel. Gli ebrei accettarono la proposta e gli arabi la rifiutarono. Nel 1947 l’ONU, viste le crescenti tensioni tra le due comunità, suggerì un’altra spartizione del territorio mandatario. Anche questa volta gli ebrei accettarono la proposta e gli arabi la rifiutarono. Nel 1948 gli ebrei proclamarono l’indipendenza e la nascita dello Stato di Israele. Gli arabi dichiararono subito la guerra, vennero sconfitti e la loro aggressione respinta. Come accennato in precedenza vi furono altre tre guerre che videro Israele vincitore. Nella guerra del ‘67, Israele riuscì a riconquistare i territori che la Giordania aveva, illegalmente, occupato nel 1948.
La locale popolazione araba della Giudea e Samaria (Cisgiordania) che iniziò in questo frangente a definirsi “palestinese” – cosa mai fatta durante il periodo mandatario – iniziò una richiesta sempre più violenta di indipendenza da Israele. A dire il vero l’obiettivo arabo era quello di eliminare lo Stato di Israele cosa che non era – e non è – nelle loro capacità militari. Sul finire degli anni Ottanta, l’amministrazione americana iniziò a prendere in considerazione la necessità di intavolare trattative dirette tra lo Stato di Israele e l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) ormai riconosciuta come rappresentante del popolo palestinese. La prima dichiarazione ufficiale, in merito a possibili trattative tra le parti fatta da un rappresentante governativo americano, avvenne nel 1989 e fu fatto dall’allora segretario di Stato James Baker. Baker chiedeva ad Israele di “fare concessioni per ottenere la pace” mentre ai palestinesi era chiesto di rinunciare al terrorismo per iniziare le trattative di pace. Quindi prima ancora di incontrarsi ad un tavolo era chiaro chi doveva fare le concessioni a prescindere da chi fosse il vincitore e da chi avesse causato le guerre. In più Baker si spinse ben oltre quando affermò che “Israele doveva rinunciare all’idea della grande Israele”. Questo passaggio merita una grande attenzione perché è il punto fondamentale che da allora ad oggi ha fortemente condizionato la posizione della comunità internazionale, ad iniziare dagli USA e dall’Europa nel conflitto tra ebrei e arabi.
Dal punto di vista storico e legale, Israele nel 1967 aveva riconquistato dei territori che già gli appartenevano legalmente dal 1922 ma questo fatto già nel 1989 era stato completamente alterato e l’utilizzo dell’espressione grande Israele, indicava chiaramente che la presenza di Israele in una parte del proprio territorio era ormai considerata alla stregua di un’impresa imperialista. Se poi, all’espressione grande Israele, gli diamo una valenza geografica ci accorgiamo che si tratta di una superficie grande come l’Emilia-Romagna comprendendo i territori di Giudea e Samaria (Cisgiordania).
Nel 1991 gli USA liberano il Kuwait dalla truppe irachene. Ormai gli americani sono diventati la principale e unica potenza politica e militare che ha voce in capitolo in Medio Oriente. Per tenere legata la coalizione sunnita che si era formata durante la crisi del Golfo, gli USA iniziano a focalizzare l’attenzione su un altro punto dell’area ancora aperto: il conflitto israelo-palestinese. Con queste premesse inizia la conferenza di Madrid che porterà agli accordi di Oslo (1993-1995). Con questi accordi Israele inizia a condividere l’amministrazione di Giudea e Samaria (Cisgiordania) con i palestinesi. Ancora una volta è Israele che fa delle concessioni alla controparte. E il principio rimarrà lo stesso per i 25 anni successivi: è sempre e solo ad Israele che viene chiesto di “non essere intransigente”. Più Israele nel corso degli anni ha concesso e più la posizione palestinese diventava più ferma nel chiedere ulteriori concessioni: prima territoriali, poi politiche poi in merito alla presenza della popolazione ebraica, infine il tutto si è arenato sulla questione dei rifugiati.
La posizione palestinese variava nel corso degli anni da maggiori richieste all’utilizzo sistematico del terrorismo per ottenere quanto chiesto. La posizione dei garanti degli accordi era – ed è – sempre e unicamente di pressione verso Israele per cedere alle richieste arabe fino ad arrivare ad alterare il diritto e a inventarsi confini mai esistiti. Ora la situazione è arrivata ad uno stallo: la dirigenza palestinese per sedersi nuovamente ad un tavolo e riprendere i negoziati ha imposto delle “precondizioni”: la totalità dei territori di Giudea e Samaria (Cisgiordania), Gerusalemme Est capitale, l’espulsione di tutti gli abitanti ebrei dai territori e la presa in carico da parte di Israele di tutti i rifugiati palestinesi causati dalle guerre volute dagli Stati arabi. Se queste sono le precondizioni non si capisce cosa ci sia da discutere ulteriormente.
Su un punto in particolare delle richieste palestinesi, vale la pena soffermarsi ed è quello relativo agli “insediamenti” o meglio la presenza ebraica in Giudea e Samaria (Cisgiordania). Su questo punto i palestinesi sono stati categorici: non un solo ebreo deve rimanere. Qual è la posizione in merito dei garanti? Completamente allineata a quella palestinese e la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2334 del dicembre 2016 è esplicita in tal senso. Ma come si è mossa la comunità internazionale in casi di contenziosi territoriali? Mai e poi mai la comunità internazionale si è espressa in favore della rimozione – anche parziale – della popolazione civile anche nel caso di un paese realmente occupante. Così è stato duranti gli incontri per risolvere il contenzioso tra Vietnam e Cambogia sul finire degli anni Ottanta. Dove i francesi e l’ONU hanno rigettato le richieste dei cambogiani di trasferimento oltre confine delle centinai di migliaia di “coloni” vietnamiti residenti ormai da oltre dieci anni in Cambogia dopo l’invasione vietnamita. La stessa cosa è successa durante gli accordi tra Timor Est e l’Indonesia negli anni novanta. Ora la situazione si è ripresentata nel contenzioso per il Sahara Occidentale tra il Marocco e il Fronte Polisario. Con questi ultimi che chiedono l’indipendenza del Sahara e l’allontanamento della popolazione marocchina che si è insediata nel territorio dopo l’invasione marocchina. In questo caso l’opera di mediazione è portata avanti principalmente dagli USA, che mai ha preso in considerazione questa evenienza, anzi rigettandola come inapplicabile date le circostanze.
Mai in un contesto diplomatico è successo che a un paese aggredito, boicottato e vittorioso in guerre difensive fosse chiesto quello che i “garanti” hanno chiesto – e chiedono – a Israele. La situazione è notevolmente cambiata con l’insediamento dell’amministrazione Trump la quale ha ribaltato, per la prima volta, l’approccio al conflitto mettendo pressione sui palestinesi. La reazione europea e degli altri garanti è stata di disapprovazione e critica feroce.
Alla luce di quanto esposto, appare abbastanza evidente che nel caso di Israele la questione è solo come Israele stesso venga “percepito” sia dagli avversari che dagli “alleati”: Israele è colpevole a prescindere. La sua colpa? Esistere e proprio sulla terra dei suoi avi. Come disse Ben Gurion “Agli ebrei non è perdonato quello che agli altri è concesso”.