Con il proseguire della guerra scatenata dalla formazione jihadista palestinese di Hamas il 7 ottobre, le posizioni della totalità dei paesi occidentali, nei confronti di Israele, è mutata significativamente. Si è passati, infatti, da un modesto e doveroso cordoglio di circostanza per le vittime dell’eccidio, perpetrato da Hamas, a una sempre maggiore ostilità verso Israele e gli ebrei di tutto il mondo. Questa condotta è diventata comune sia nelle piazze sia a livello politico (la prima ha indubbiamente condizionato la seconda). Qui ci occuperemo solo dei risvolti politici della guerra.
Dopo il cordoglio, a parte gli Stati Uniti, nessun paese occidentale ha mosso un dito per aiutare concretamente Israele e il suo popolo nella guerra contro Hamas. Nessun paese europeo ha fornito o sta fornendo armi e munizioni a Israele per difendersi, nessuno ha fornito o sta fornendo aiuti di qualsiasi genere per i sopravvissuti dell’eccidio, o per gli oltre 250.000 sfollati israeliani (tra nord e sud del paese) che a distanza di oltre 5 mesi, non possono tornare nelle loro case per condurre una vita normale. In pratica si è ripetuto lo scenario già visto nel 1948 e nel 1973: il popolo ebraico è stato nuovamente abbandonato ma, questa volta, con un’aggravante. L’aggravante è politica: il premio ventilato ai terroristi, consistente nel riconoscimento di uno Stato palestinese da parte della comunità internazionale (compresi gli USA) quando la guerra cesserà. Si tratta senza dubbio un passo avanti rispetto alla formulazione della Risoluzione 242, che chiudeva la guerra dei Sei giorni, o degli Accordi di Oslo. Si è passati, infatti, dal concetto di terra in cambio di pace (principio valido solo per Israele) a quello di eccidio in cambio di riconoscimento statuale. I vecchi princìpi legali e morali come pacta sunt servanda, reciproco riconoscimento, coesistenza, accordo tra le parti appaiono del tutto anacronistici e demodé: oggi, evidentemente, è più comodo e veloce compiere un eccidio e subito dopo, come conseguenza, arriva uno Stato servito su un piatto d’argento. Potrebbe essere un importante precedente per i curdi, i tibetani, i catalani, i baschi ma anche per i corsi, i fiamminghi, gli scozzesi, i nord irlandesi, i tirolesi e tantissimi altri. Ma, a conti fatti, si ha la netta sensazione che questo principio, in voga in tutte le cancellerie Occidentali (anche in Italia da parte del governo “amico” Meloni), valga solamente se una delle due controparti è Israele mentre per nessun altro caso al mondo è preso in considerazione. Perché questo doppio standard? Perché, anche se non espressamente detto, Israele è considerato uno Stato illegale, e come tale deve sempre – e solo lui – concedere qual cosa alla controparte. Tale principio è iniziato prima ancora della nascita dello Stato ebraico: lo si può retrodatare almeno al 1922, quando la Gran Bretagna operò la separazione della Transgiordania dal territorio previsto per il futuro Stato nazionale ebraico. Diventa chiaro che anche in Europa (e negli USA), consciamente o inconsciamente, il popolo ebraico non ha diritto alla propria autodeterminazione men che meno in Terra di Israele. Questa profonda convinzione ha portato ad una vera e propria dissonanza cognitiva (l’elaborazione di schemi mentali in contrasto con i fatti i quali vengono neutralizzati a salvaguardia degli schemi) in merito alla realtà mediorientale. Ne vedremo i tratti principali.
Oggi è convinzione praticamente unanime che se non si è ancora arrivati ad un accordo con i palestinesi è colpa “dell’intransigenza di Netanyahu”. Ma questa affermazione cancella almeno 100 anni di storia precedente nei quali è stata l’intransigenza araba a non permettere nessun accordo. Infatti, tutte le proposte discusse sono, sempre e solo state rigettate dagli arabi (1937, 1947, 1967, 1995, 2000, 2008). Però, oggi, si ha, in Europa e negli USA, la convinzione che se non si trova un accordo è per colpa del “governo intransigente” israeliano di turno, sia che esso sia di destra o di sinistra. Prendiamo ad esempio gli Accordi di Oslo del 1993-1995. Essi furono salutati in Occidente (e dalla sinistra israeliana) come la svolta che avrebbe inaugurato una nuova epoca: la tanta agognata pace sembrava a portata di mano. Ma la realtà dei fatti ha dimostrato che si è trattato di un colossale inganno da parte dei palestinesi che così hanno potuto ottenere una grandissima autonomia (ben maggiore di quella dei tirolesi in Italia che è citata a modello in tutto il mondo) dando solo vaghe promesse in cambio, promesse che non hanno mai mantenuto (rinuncia al terrorismo). Quando gli Accordi di Oslo deragliarono nel 2000 con il rifiuto di Yasser Arafat alla proposta di Ehud Barak, tutta la pressione politica e diplomatica venne riversata unicamente su Israele e non sui palestinesi. In questa circostanza, la dissonanza cognitiva occidentale si palesò in pieno: più gli arabi si irrigidivano nelle loro posizioni più diventava colpa di Israele che doveva fare ulteriori concezioni: altro territorio, liberazione dei terroristi, accettazione di milioni di “profughi”, blocco degli “insediamenti”. Ogni volta che un sembrava approssimarsi, gli arabi scientemente alzavano le loro pretese, e tutte le volte, per l’Europa e per gli USA, era Israele che doveva cedere. Questa litania è andata avanti per trent’anni e i frutti di Oslo si sono visti appieno il 7 ottobre. Ma, nonostante l’eccidio compiuto dai palestinesi di Hamas la colpa, ancora una volta, è ricaduta su Israele: il ritiro unilaterale israeliano da Gaza del 2005, ad esempio, è diventato, nelle menti dissonanti occidentali, una finzione. Così Gaza sarebbe ancora “occupata”, sarebbe “una prigione a cielo aperto” e via dicendo. Senza mai spiegare compiutamente però, come da una “prigione a cielo aperto” si possano sparare migliaia di razzi (oltre che fabbricarli o importarli dall’Egitto), ogni anno, verso i civili israeliani oppure costruire 800 chilometri di tunnel in un’area “occupata”. Ogni volta che Israele si è difeso dalle aggressioni palestinesi, è stato inevitabilmente trasformato nell’aggressore ribaltando palesemente la realtà. Un altro aspetto fondamentale della dissonanza cognitiva dell’Occidente è quello relativo al “benessere”. In Occidente si ha da decenni la convinzione che la causa di quasi ogni conflitto risieda nella depressione economica. Quindi, se si coprono di soldi gli indigenti, smetteranno di causare guerre, provocare violenze e terrorismo. Ma è proprio così? No, questa regola dalla fine della Seconda guerra mondiale ha funzionato solo per la Germania e il Giappone dopo che le oro economie erano state devastate a seguito del conflitto, ma in questi due paesi il risanamento economico andò di pari passo con un cambiamento di mentalità. Tale logica (denaro in cambio di pace) in Medio Oriente non ha mai funzionato, è vero il contrario: più soldi sono stati stanziati più il terrorismo e la violenza sono aumentati. Il caso palestinese è emblematico in tal senso: dagli Accordi di Oslo in avanti i palestinesi hanno ricevuto più del doppio dei soldi del piano Marshall, con il quale l’Europa si rimise in piedi dalle distruzioni della guerra, ma la loro propensione al terrorismo anziché diminuire è aumentata a dismisura. A una analoga conclusione è arrivato lo storico Efraim Karsh, in un suo lavoro di ricerca sugli arabi israeliani, nel quale ha evidenziato che tanto più i governi di Israele, a partire dagli anni ’70, hanno finanziato la comunità araba tanto più essa si è radicalizzata fino a fare scoppiare un’autentica rivolta in tutte le città miste, nel maggio del 2021. Quello che l’Occidente si ostina a non volere comprendere è che in Medio Oriente sono ancora profondamente radicate delle regole culturali-religiose che in Europa e negli USA non esistono più e la religione ha un peso ben maggiore del benessere. È la ragione per cui non si può trovare un accordo tra Israele e i palestinesi, perché culturalmente Israele, per gli arabi, non ha legittimità in Medio Oriente e non perché in Israele ci sia benessere e nei territori palestinesi molto meno.
Questo ragionamento vale anche in campo militare. L’Occidente non ha capito, o finge di non capire, che se Israele non vince in modo netto e inequivocabile, come fecero gli Alleati con la Germania e il Giappone, questa guerra contro Hamas, la sua deterrenza militare subirà un colpo mortale e questo porterà, inevitabilmente, a un futuro scontro con una ricostruita Hamas, ma anche con Hezbollah e l’Iran, come fu in Europa dopo la Prima guerra mondiale con la Germania. In Medio Oriente la deterrenza e la forza militare hanno una valenza ben maggiore che in Occidente, dove si crede che non servano, perché dopo quasi ottant’anni di pace, grazie unicamente agli Stati Uniti, non si concepisce più l’uso della forza militare. Invece, al di là dell’orizzonte astratto e ideale del progresso in cui trionferà la pace, nel mondo in cui viviamo, ha ancora un suo enorme peso, come testimonia il caso Ucraina lo testimonia. Analogo ragionamento vale per i compromessi: in Medio Oriente sono visti come debolezza e non con come volontà di pace. I compromessi servono solo alla parte debole per guadagnare tempo, rafforzarsi e attaccare quando si sente sufficientemente pronta per aggredire l’avversario. Questo è quanto accaduto il 7 ottobre. Il ritiro israeliano dalla Striscia, il permesso di ingresso in Israele di decine di migliaia di lavoratori, di malati per le cure, di ricongiungimenti famigliari non sono serviti a niente, così come il costante flusso di materiali e soldi che sono serviti unicamente a Hamas per rafforzarsi e non per trovare un compromesso.
Se la dissonanza cognitiva di cui soffre l’Occidente non verrà curata adeguatamente i danni che ne conseguiranno non saranno solo quelli che esso vorrebbe infliggere a Israele ma esso stesso ne patirà le conseguenze.