Renato Cristin è docente di Ermeneutica filosofica all’Università di Trieste. È stato Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Berlino e Consigliere culturale dell’Ambasciata d’Italia nella capitale tedesca. Ha curato l’edizione italiana di opere di Husserl, Heidegger e Gadamer. Autore di numerosi saggi, ricordiamo: La rinascita dell’Europa. Husserl, la civiltà europea e il destino dell’Occidente (Donzelli, 2001), Heidegger e Leibniz. Il sentiero e la ragione (Bompiani, 1990) e I padroni del caos (Liberilibri, 2017).
Convinto sostenitore delle ragioni di Israele, ha accettato di rispondere alle domande de L’Informale e lo ha fatto in modo adamantino toccando molti nervi scoperti della civiltà occidentale e del suo rapporto con lo Stato ebraico.
In questi giorni di scontri tra Israele e Hamas sono molti quelli che, a destra come a sinistra, si sono schierati contro lo Stato ebraico, accusato di essere un’entità “coloniale”. Quali sono le radici e gli elementi portanti dell’antisionismo italiano?
Io vedo radici eterogenee, ramificazioni differenziate, trasformazioni nel tempo, tattiche ed espressioni diverse, ma esiti identici. Tutte sfociano infatti nell’accusa a Israele di essere uno Stato razzista e persecutore, ossia nella violenta diffamazione e nel boicottaggio ideologico di una nazione e del suo popolo. È in questi esiti che si manifesta il comune denominatore, costituito dall’odio per il popolo ebraico, di questa sfuggente, oscura, variegata, sgangherata e internamente anche contraddittoria galassia antisionista italiana, ed è in essi che si possono individuare i tratti che caratterizzano l’antisionismo attuale, non solo italiano: ideologia, fanatismo, complottismo (non finirò mai di stupirmi di quanto l’ottusità sia sempre vigente, come se fossimo ancora ai tempi in cui venivano spacciati i Protocolli di infame memoria), e poi conformismo, appiattimento sulle tesi ideologico-geopolitiche dell’ONU o delle sedicenti organizzazioni umanitarie, avversione per Israele e propensione per i palestinesi, filoislamismo e neonazismo, terzomondismo e neocomunismo. Qui si mescolano posizioni che su altri piani sono inconciliabili: marxisti e islamisti, comunisti e nazisti, internazionalisti e antiglobalisti, riuniti in un calderone ribollente che schiuma ostilità unilaterale. Aleggia lo spettro della menzogna, della denigrazione profonda e della delegittimazione internazionale. La “leggenda nera” intessuta sulle antiche fandonie continua a imperversare e a infettare le menti; l’idea del complotto demo-pluto-giudaico è ancora attiva e rinfocolata oggi anche dalla valanga di pseudoteorie intorno alla pandemia – manca solo l’accusa a Israele di aver causato l’epidemia da coronavirus, o forse da qualche parte qualche pazzo l’ha già lanciata. Ecco, l’idea del complotto salda neri e rossi, in un furore israeloclastico che sta crescendo esponenzialmente coinvolgendo anche molte frange dell’islamismo, come L’Informale ha spesso segnalato. Il mio amico Alex Del Valle ha parlato di un’alleanza nero-rosso-verde che ha nel mirino Stati Uniti e Israele.
L’antisionismo è una forma di quel “nuovo antisemitismo” che da alcuni anni si è manifestato in Europa. C’è un anti-israelismo freddo e uno caldo: il primo nasce da posizioni politiche e si articola con il ragionamento, per quanto fallace e pregiudicante; il secondo scaturisce dall’odio e si dispiega con l’ostilità a tutto campo. Entrambi però sono accomunati da un identico effetto. E lo stesso modello vale per l’antisemitismo: da un lato abbiamo il pregiudizio che scaturisce dalla propaganda ideologica, dall’altro il pregiudizio pre-razionale, pre-mentale addirittura, che si annida nei recessi bui della primitività. C’è un antisemitismo funzionale e uno sostanziale, che si distinguono come si differenziano la funzione e la sostanza di una cosa, ma che sono identici nei loro effetti. Quello sostanziale è sistematico, quello funzionale è circostanziale, ma entrambi sono e vogliono essere parimenti distruttivi.
Centinaia di palestinesi hanno scatenato un’intensa guerriglia urbana nelle città di Lod, Gerusalemme e Jaffa. Queste insurrezioni ricordano quelle inscenate, anche in tempi recenti, nella periferia parigina da giovani arabi, durante le quali si scandivano slogan contro gli ebrei e il sionismo. Il conflitto arabo-israeliano, dunque, è un fenomeno regionale oppure riguarda in modo più ampio l’Europa?
Altroché se riguarda l’Europa; riguarda tutti, perché qui si scontrano due mondi, due visioni contrapposte, e a una di esse appartiene anche l’Europa. Qui confliggono interessi di ordine superiore, di carattere originario e che riguardano l’intera storia dell’Occidente e del Medio-Oriente. Gerusalemme è il punto nevralgico di quello “scontro fra civiltà” descritto da Samuel Huntington e che da questo baricentro si irradia poi dovunque. È come se vedessimo due zolle tettoniche cozzare l’una contro l’altra, ma noi occidentali apparteniamo a una di queste, che lo vogliamo o no, insieme a Israele. È la storia che ci unisce, e che ci differenzia dall’altra parte in conflitto. Certo, poi ci sono le innumerevoli pieghe della realtà, quelle interrelazioni fra le due parti che rendono possibili spazi di pacificazione e di cooperazione, come avviene sul territorio europeo o nordamericano, ma l’essenza della questione resta la medesima. La posta è altissima e l’Europa commetterebbe un errore capitale se volesse restare spettatrice di un gioco che invece la riguarda direttamente e totalmente. Il conflitto arabo-israeliano ha infatti sempre implicato lo scenario globale, e quindi anche l’Europa, della quale esso tocca luoghi strutturali che vanno al di là dell’ambito economico e politico, che consistono nella dimensione spirituale e culturale, e che si proiettano sul piano delle istituzioni, anche di quelle internazionali.
Oggi infatti si mostra, ancora una volta, uno dei nervi scoperti del sistema di potere sovranazionale non solo concreto ma anche ideologico rappresentato dall’ONU e dalle organizzazioni che direttamente o indirettamente vi fanno riferimento. Questo luogo, simbolico ma anche reale, è Israele: una sorta di tabù negativo, del quale non si può parlare se non per dirne male, che non si può toccare se non per colpirlo, che si tollera, sia pure a malapena, ma che si vorrebbe eliminare. A questo intoccabile rovesciato si affianca un totem che le medesime forze sovranazionali hanno eretto: i palestinesi, per i quali accade l’esatto contrario di ciò che subisce Israele: di essi si può parlare soltanto bene, devono essere sempre e soltanto sostenuti, i loro eventuali errori sono sempre conseguenza di errori altrui, e quindi giustificati. Seguendo questo schema, risulterebbe che gli israeliani opprimono e perseguitano i palestinesi, e quindi nonostante le perplessità che si possano avere su questi ultimi, la colpa risiederebbe tutta nei primi ed è a questi che andrebbe comminata la condanna. Tutte le risoluzioni dell’ONU e dei suoi organismi su Israele sono improntate a questo modello mentale e ideologico. Vorrei aggiungere un ulteriore elemento.
Prego.
I palestinesi vengono anche strumentalizzati da coloro che vogliono la distruzione di Israele indipendentemente dal cosiddetto “problema palestinese”; manipolati da pupari esterni ed interni, iraniani o turchi, occidentali o arabi, ma anche dai loro emissari palestinesi come Hamas, islamisti vari e, prima ancora, la stessa OLP. Nnon dimentichiamo quanto questa organizzazione ha lucrato sui palestinesi stessi, secondo il vecchio schema marxista-leninista: proclamare di servire il popolo ma in realtà utilizzarlo e sfruttarlo per i propri interessi ideologici e perfino monetari. Alcuni intellettuali apparentemente moderati e non pregiudizialmente ostili a Israele dicono che bisogna avere un atteggiamento di equidistanza (o equivicinanza, è lo stesso) rispetto a Israele e ai palestinesi. D’accordo, ma anche se assumiamo questa tesi, dobbiamo poi verificarla sul campo, fare l’esperienza di quella situazione, al cui centro c’è però – oggi come sempre – un dato inconfutabile che rende fallace quella tesi: una parte rilevante del mondo islamico (e dei palestinesi) vuole l’annientamento di Israele, e non lo vuole solo per questioni politico-territoriali, ma soprattutto per motivi ideologico-religiosi, e sono questi a costituire la pietra fondante della guerra a Israele. Guerra continua, talvolta a bassa intensità, talvolta con eruzioni come l’attuale, alimentata da quell’islamo-marxismo che si sta consolidando in Occidente e che in Medio-Oriente è schierato sul campo. Confutando le tesi di David Grossman, Antonio Donno ha recentemente pronunciato quella verità semplice ma sistematicamente negata: “il mondo palestinese non ha mai accettato la realtà di Israele e continua a volerne la distruzione. La storia pluridecennale dell’odio palestinese verso lo stato di Israele ne è la dimostrazione più lampante”. Il re è nudo, ma l’ideologia antisionista continua a rivestirlo. Vale ancora ciò che disse Golda Meir, parafrasata recentemente da Benjamin Netanyahu: “se gli arabi deponessero le loro armi, non ci sarebbe più guerra; se gli israeliani deponessero le loro, non ci sarebbe più Israele”. E quindi, come si può essere equidistanti, se, come ha spiegato accuratamente Fiamma Nirenstein, “Hamas vuole il jihad”?
Si può dunque affermare secondo lei che ciò che sta accadendo in Israele è una prova che il legame tra fanatismo islamista e ideologia neocomunista si è consolidato?
Sì. Gli attacchi militari a Israele provengono da Hamas e dintorni (sostenuti con armamenti prevalentemente da Iran e Hezbollah), mentre gli attacchi ideologici provengono anche da organizzazioni come la ONG Human Rights Watch (sostenuta dall’ONU e dall’UNESCO, e accreditata presso la Corte Penale Internazionale), che ha recentemente pubblicato un rapporto contro Israele che sembra essere scritto da “Che” Guevara, pieno di slogan tipici del marxismo: Israele sarebbe colonialista, razzista, fascista, militarista, persecutore dei pacifici palestinesi, ecc. Questa coalizione islamico-comunista, che ha alle spalle anche potenze come Cina, Russia e Turchia, vuole colpire una nazione che è al centro dell’odio religioso degli islamisti radicali, del risentimento ideologico degli internazionalisti anti-identitari che guidano l’ONU, e della spietatezza politica di quelle forze che tentano di alimentare il caos globale per ricavarne vantaggi finanziari. Alain Finkielkraut ha giustamente osservato che “a partire dalla Conferenza di Durban, organizzata dall’ONU nel settembre 2001, l’antisemitismo parla la lingua immacolata dell’antirazzismo”. E andare contro il diktat antirazzista è come nuotare contro corrente, anzi peggio, è come andare contromano in autostrada. Ecco perché è così difficile smontare l’apparato ideologico-diffamatorio anti-israeliano. Quando poi alle tossine ideologiche si affiancano gli interessi economici, la cornice è completa, e così si spiega perché, come scriveva Fiamma Nirenstein già vent’anni fa in un libro dall’attualità incandescente, “l’Occidente ha tradito gli ebrei”. Sì, l’Europa, intesa come Unione Europea, ha abbandonato Israele. Sull’antisemitismo come sull’immigrazionismo, questa Europa sembra giocare su più tavoli e, in ogni caso, non sull’unico tavolo giusto: quello dell’identità e della verità. A questa Europa guardava con dolore e con irritazione il premio Nobel Imre Kertész, sopravvissuto all’Olocausto, che ha toccato proprio il tasto che l’Europa istituzionale vuole nascondere e dimenticare: “mi ha sempre infastidito la menzogna velata da affettività stridente che aleggiava intorno ad Auschwitz. Ora che l’Europa professa apertamente la distruzione di Israele, lo sterminio degli ebrei, quindi sostanzialmente Auschwitz, è come se la nebbia si fosse diradata”.
Per la casa editrice Liberilibri ha pubblicato un corposo saggio intitolato I padroni del caos, può spiegarci chi sono?
Detto con estrema sintesi, sono i poteri, eterogenei ma convergenti, che agiscono per una trasformazione in senso globalistico totalizzante, spingendo soprattutto per imporre nei paesi occidentali una omogeneizzazione culturale, corrispondente ai dettami del politicamente corretto, che prevede l’abbandono della tradizione e l’accoglimento di modi di vivere allogeni, per il cui fine è necessaria non solo una forte pressione sul piano ideologico ed economico, ma, in Europa e sul lungo periodo, pure una progressiva sostituzione dei popoli. Ma questi poteri non si rendono conto che, se oggi riescono ad avanzare spargendo il caos, passo ritenuto necessario per l’obiettivo finale, quando la polvere si sarà depositata prevarrà ancora il caos, questa volta definitivo. E così essi rischiano di diventare padroni del nulla o, per dirla con Jankélévitch, del “quasi niente” almeno in base ai canoni della tradizione occidentale, secondo cui il caos è il nulla e perciò va trasformato in ordine, cioè nell’insieme ordinato degli enti.
Il libro che Lei cita, uscito nel 2017, ritrae una situazione e prefigura uno scenario del prossimo futuro, del quale stiamo esperendo oggi la sostanza: il caos generalizzato, sociale, politico, culturale, spirituale e mentale, determinato da svariati fattori ma causato principalmente da un martellamento culturale che risale agli anni Cinquanta, che ha avuto il suo amplificatore decisivo con il movimento del ’68, che si è unito in un paradossale connubio con la burocrazia eurocomunitaria, e che è stato utilizzato da quelle forze finanziarie, politiche e ideologiche globaliste e antioccidentali che ho menzionato poco fa. Una delle ultime espressioni di questo caos è la teoria del Great Reset, un progetto che impasta finanza rapace e ideologia socialista, meccanismi del sistema capitalistico con fumisterie da economia terzomondista, simulacri di valori morali con la fede inconcussa nella tecnoscienza, pauperismo da incubo con angoscianti e tecnificati scenari post-umani. Se non avesse una certa presa sulle élites globali, questo progetto sarebbe da considerare come un’ennesima sparata di teorici pasticcioni. Ma pur nella sua inconsistenza contenutistica, il libro-manifesto di Schwab e Malleret è infatti un coacervo di luoghi comuni, ricette economiche vecchie e fallimentari, scenari dagli effetti rutilanti ma dalla sostanza inesistente, esso trova credito, sia presso i padroni del caos sia presso gli schiavi del caos, cioè tanto presso coloro che vorrebbero utilizzarlo come punta di lancia per il progetto globalista e neo-terzomondista, quanto presso coloro che lo avversano come se fosse un raffinato complotto ordito da fantomatiche cupole del potere, i quali sono tanto sprovveduti da essere, inconsapevolmente, utili idioti al servizio del caos stesso, che essi contribuiscono ad alimentare con le loro bufale planetarie. Quello che oggi da diverse parti viene denunciato come il complotto per un nuovo ordine mondiale è fittizio, perché non c’è una regìa degna di questo nome, e, se per assurdo fosse vero, sarebbe fallace, perché non produrrebbe ordine, ma caos. In ogni caso, il Great Reset è un progetto sia anti-religioso sia anti-identitario. Nei suoi intenti, così come dovrebbe essere resettata la tradizione europea, dovrebbe essere cancellata anche la volontà identitaria di Israele, che è il modello della nazione che pur operando pienamente nel quadro della globalizzazione economica, resta assolutamente refrattaria alle imposizioni della globalizzazione culturale, ricevendo appunto in cambio l’ostilità delle organizzazioni internazionali.
Nella sua introduzione al pamphlet dello scrittore francese Richard Millet, intitolato L’antirazzismo come terrore letterario, edito sempre da Liberilibri, lei scrive: “L’esperienza di guerra libanese ha rafforzato in Millet la convinzione che la cultura ebraica è parte non solo integrante ma anche costitutiva dell’identità europea”, in cosa consiste la matrice ebraica dell’Europa?
Millet, cattolico, negli anni Settanta si trova, volontariamente, in mezzo alla guerra civile libanese, dove vede all’opera sia l’odio islamico anti-cristiano e anti-israeliano, sia l‘appoggio che i media europei offrono al fanatismo palestinese e di Hezbollah, vede cioè l’anticipazione della realtà di questi ultimi anni. Millet, cristiano, sente Israele come carne propria, e resta sconvolto poi, quando vede che la sconfitta dei cristiano-maroniti echeggia nel ritiro degli israeliani dal sud del Libano, lasciando mano libera a forze che sono ostili a entrambi. Ma, questa è la mia tesi, non è il comune nemico ciò che unisce ex-post cristiani ed ebrei, è vero piuttosto il contrario: è l’affinità originaria fra cristiani ed ebrei ad aver suscitato un nemico di entrambi. Solo con questo rovesciamento prospettico si può entrare nella lunghezza d’onda per comprendere – e ciò significa non solo capire con la ragione ma anche sentire con lo spirito – il dramma di Israele. Per comprenderlo si può fare uno sforzo razionale, ma la chiave che lo dischiude è quella che definirei l’intuizione spirituale. Solo con questa forma superiore di empatia si può cogliere il senso di questo dramma e dell’unione profonda e originaria fra cristiani ed ebrei. Chi ha espresso nella forma più elevata, e con potenza ineguagliabile, questa affinità originaria è stato papa Giovanni Paolo II, quando nel 1986 pronunciò la frase definitiva: gli ebrei sono “i nostri fratelli prediletti, i nostri fratelli maggiori”. E in quella storica visita alla Sinagoga di Roma presentò una tesi altrettanto fondamentale: “la religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma è ‘intrinseca’ alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione”, e un assunto decisivo, dalle implicazioni epocali, sia dal punto di vista teologico sia da quello politico: “agli ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò ‘che è stato fatto nella passione di Gesù’. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie”. Certo, questa tesi esprime una pura verità logica, culturale e storica, e tuttavia spesso la verità ha bisogno di essere mostrata esplicitamente, perché spesso viene negata. Così come bisogna mostrare la verità insita nella forza che le Tavole della Legge hanno esercitato sull’intera tradizione religiosa, spirituale e culturale dell’Europa. Qui risiede e qui si mostra la matrice ebraica dell’Europa, che Giovanni Paolo II rilanciò anche sul piano politico-istituzionale, quando si batté, purtroppo invano, per far inserire nel Trattato per la Costituzione europea la menzione delle “radici ebraico-cristiane” del nostro continente.
Gli israeliani vivono sotto i missili, molti ebrei europei hanno lasciato il vecchio continente, ma anche i cristiani, soprattutto orientali, sono minacciati dall’islamismo. Cosa dovrebbe fare l’Europa dinanzi al martirio dei cristiani?
La “nuova giudeofobia”, come spiega Pierre-André Taguieff, è un iceberg di cui vediamo solo la punta. Troppi veleni e troppa stoltezza si sono accumulati, a formare un gigantesco blocco ideologico. Ma anche i cristiani sono sotto attacco, da un fronte non del tutto identico ma che include alcuni comuni avversari, tra cui spicca il fondamentalismo islamico. In alcuni paesi, com’è noto, sono in atto contro di essi persecuzioni sistematiche e perfino appoggiate dalle istituzioni, ma anche in Europa ci sono segnali inquietanti, come per esempio nella Bosnia ormai sostanzialmente islamizzata, dalla quale c’è ormai da anni un vero e proprio esodo di cristiani, intimiditi e oppressi.
Pur rendendosi ben conto di ciò, le istituzioni europee però non se ne curano, perché le questioni religiose non interessano più alla politica europea, non solo per un eccesso di laicità che è arrivato al laicismo, ma anche perché la religione è uno degli elementi fondamentali della nostra tradizione, e poiché la tradizione viene intenzionalmente anche se occultamente osteggiata, la radice ebraico-cristiana va nascosta, come nel caso della sua mancata menzione nel Trattato costituzionale, cancellata o distrutta, allo scopo di sostituirla con uno spazio neutro, che si crede sia più facilmente manovrabile, ma che in realtà sarà solo terreno di infiniti conflitti. Cosa dovrebbe fare dunque l’Europa? Sia dinanzi ai consueti attacchi a Israele, sia di fronte alle sistematiche persecuzioni e uccisioni di cristiani in molte aree del mondo, l’Europa dovrebbe fare semplicemente ciò che Israele fa o almeno tenta di fare nei confronti degli ebrei nel mondo: proteggerli, cristiani ed ebrei, con tutte le proprie forze. Punto.
Ultima domanda: in tutta Europa si diffondono zone franche all’interno delle quali vige la Sharia. Accade in Svezia, Inghilterra, Germania e Francia. Il multiculturalismo è fallito?
Il multiculturalismo non poteva non fallire, perché è stato imposto come un dogma e come una gabbia totalizzante, che prefigurava la progressiva ma inesorabile scomparsa delle identità e delle tradizioni culturali europee e statunitensi. È fallito ovunque, proprio perché ha mostrato la sua intenzione anti-identitaria mascherata da difesa delle identità altre; perché ha proceduto come negazione dell’io a favore dell’altro; perché non è stato concepito come interculturalità, come teoria e prassi relazionale, ma come ingiunzione del politicamente corretto e della frenesia terzomondista. Ma nonostante questo evidente naufragio, i suoi fautori continuano a teorizzarlo e a imporlo. È un organismo moribondo tenuto artificialmente in vita, che però continua a fare danni, fino ad aprire la via a realtà che paradossalmente negano anche la molteplicità insita almeno nel concetto. Sto parlando appunto delle realtà che Lei ha menzionato: aree islamizzate sparse soprattutto nell’Europa settentrionale e nei paesi balcanici (e ora anche in Catalogna), in cui le leggi scritte (quelle degli stati) e non scritte (le consuetudini della tradizione) vengono ignorate o addirittura bandite, a favore di un altro corpus legislativo, scritto e non, che si chiama sharia. Terreni di coltura del fondamentalismo e palestre d’addestramento del terrorismo, queste zone sono ormai incontrollabili e si accrescono costantemente. Questi territori perduti diventano corpi estranei nelle società europee, e con la connivenza di leggi inadeguate e magistrature imbelli i loro membri possono dedicarsi anche al proselitismo in altre zone che diventeranno nuove enclaves islamiche, e soprattutto possono radicalizzare i giovani spingendoli sulla strada della jihad. I terroristi delle stragi di Parigi del 2016 venivano da Molenbeek, quartiere di Bruxelles quasi totalmente sotto il controllo degli islamici e della loro sharia. A Rosengård, quartiere di Malmö, ormai si vedono i segni sia dell’islamismo europeo sia del jihadismo europeo. Sul cartello di benvenuto nella città svedese di Gävle c’è il volto di una ragazza velata con lo hijab. Ma l’elenco è lunghissimo. Le autorità ne sono al corrente, ma preferiscono non intervenire, dicono, per non surriscaldare le situazioni. Ma ci rendiamo conto? Stiamo consegnando intere zone a coloro che vogliono, detto alla svelta, eliminarci o almeno sottometterci. Lei capisce che di questa follia europea non viene nemmeno più voglia di parlare, tanto più dopo che gli esperti veri da anni ripetono che questa è la via per il suicidio, dopo che una personalità indiscutibile come Ayaan Hirsi Ali aveva raccomandato: “in nessun caso i paesi occidentali devono permettere ai musulmani di costituire enclaves autogovernate”. Ecco, ora le hanno costituite.