Storia di un amore non corrisposto, o perlomeno non pienamente. Così si potrebbe riassumere l’incontro-scontro tra i gilet gialli e Alain Finkienlkraut, filosofo francese fino a ieri considerato reazionario, se non addirittura islamofobo e razzista, ed oggi tornato ad essere un ebreo figlio di sopravvissuti polacchi alla Shoah. Già, perché gli ingredienti per mandare in tilt la sinistra occidentale ci sono tutti: da una parte un figlio di deportati che si scaglia contro l’immigrazione e il multiculturalismo, dall’altra attivisti antirazzisti che palesano atteggiamenti aggressivi e squadristi. Due verità e due categorie di persone troppo scomode in una volta sola. Probabilmente una vicenda eccessivamente complessa da raccontare, meglio riassumerla con un più rassicurante “gilet gialli fascisti aggrediscono filosofo ebreo figlio di deportati”.
Chi legge o ascolta Finkienlkraut, apprezzandolo o contestandolo, sa quanto le sue idee siano avversate e osteggiate da anni da una certa sinistra non solo estrema. Il filosofo francese, oltre ad essere un nemico giurato di quello che egli definisce “il relativismo del pensiero unico”, è spesso critico nei confronti della cosiddetta “politica dell’accoglienza” concentrandosi in primis sull’immigrazione islamica in Francia. Una sorta di Oriana Fallaci d’Oltralpe, con a grandi linee i medesimi schieramenti politici ad osannarlo o criticarlo. Da ebreo figlio di sopravvissuti alla Shoah non può certo essere definito fascista, eppure taluni lo considerano un estremista di destra e razzista. Accuse che, per l’appunto, sono state rivolte anche all’ex partigiana Oriana Fallaci.
Quanto Finkienlkraut sia davvero “razzista”, quanto sia “islamofobo” o nazionalista non è però cruciale, soprattutto perché si tratta di valutazioni soggettive e opinabili, come tali destinate a creare dibattiti infiniti e probabilmente inutili. Ciò che conta è solo ciò che si può dimostrare, ossia che da tempo Finkienlkraut sia osteggiato, insultato, talvolta aggredito da chi invece si definisce antifascista e antirazzista, senza che questo abbia mai fatto agitare lo spauracchio dell’antisemitismo.
Fino a ieri, giorno in cui è stato diffuso un video che pretenderebbe di inchiodare “l’antisemitismo dei gilet gialli” rei di aver insultato “il filosofo ebreo Finkienlkraut”.
Parbleu! Pensavamo che tutti si fossero dimenticati che il “reazionario islamofobo” fosse anche un ebreo figlio di deportati, dettaglio in effetti scomodo e probabilmente troppo sconveniente da ricordare per i detrattori.
L’idea che invece il politicamente variegato e assai poco inquadrabile movimento dei gilet gialli francesi possa essere etichettato come “antisemita” e che la rabbia popolare possa diventare pericolosa ed essere incanalata contro gli ebrei è assai più spendibile per i media mainstream, che quindi hanno preferito dare alla notizia il taglio più semplice e banale.
Una semplificazione di un fenomeno complesso val bene la strumentalizzazione dell'”odiato” (fino a ieri) Finkienlkraut, magicamente riscoperto e rivalutato. Per una volta vittima, dopo anni di aggressioni e insulti ignorati.
Quando alcuni mesi fa studenti universitari di idee progressiste hanno pensato bene di lanciare torte in faccia al filosofo, nessuno si è sognato di urlare all’antisemitismo.
A Parigi, ieri, è accaduta la stessa cosa. E’ accaduto semplicemente che attivisti antirazzisti e antifascisti, estremisti di sinistra, anche qualche immigrato delle banlieue hanno riconosciuto Finkienlkraut (peraltro dichiaratamente simpatizzante dei gilet gialli) e l’hanno cacciato dal corteo urlandogli “razzista”, “sionista”, “fomentatore d’odio”, “islamofobo”, “il popolo ti punirà, andrai all’inferno” e “la Francia siamo noi, non tu”, da interpretare come “la Francia è aperta e tollerante” (ma non con lui n.d.r) e non come furbescamente hanno provato a fare i giornali nostrani inventandosi un mai urlato “La Francia ai francesi”. E sì, ci sono stati anche tanti cori a favore della Palestina, perché buona parte degli attivisti immigrazioni e terzomondisti sono antisionisti.
Tra i No Borders pronti a salire sui gommoni per difendere i diritti dei migranti della Diciotti e della Sea Watch non ci sono difensori di Israele, probabilmente anche questo stupirà chi ha fatto finta di non capire il reale movente dell’aggressione a Finkienlkraut.
Niente di nuovo in realtà, solo lo stupore di una certa sinistra a cui non va a genio che taluni attivisti fino a ieri coccolati oggi indossino gilet gialli per contestare Macron e probabilmente anche l’Unione Europea. Così va il mondo.
Agitare lo spauracchio della caccia agli ebrei facendo credere che sia la causa scatenante di un’aggressione in realtà politica non è il modo migliore per sostenere la lotta contro l’antisemitismo, che in Francia e in tutta Europa è presente eccome e fa ancora paura. Proprio perché la questione è seria, andrebbe trattata con rispetto e senza ricostruzioni fantasiose, anche perché è la seconda volta che tale accusa è usata per additare i gilet gialli senza prove: recentemente ha fatto scalpore la scritta “Juden” apparsa sulla vetrina di un negozio parigino, vergata però da non si sa chi e in una zona che nulla aveva a che vedere con il corteo dei gilet gialli. Eppure, anche in quel caso sono fioccate analisi e sentenze contro l’intero movimento, proprio come in questo si sono sprecati i titoli su uno “sporco ebreo” mai pronunciato contro il filosofo francese, tacciato però in compenso di essere un “sionista” perché difende le ragioni di Israele.
Piaccia o no, Finkienlkraut è stato aggredito non in quanto ebreo figlio di sopravvissuti alla Shoah, ma perché considerato razzista da attivisti antifascisti. Se analisi devono essere fatte, siano su questo.