“Tutto è cambiato” in Israele il 7 ottobre. Ma è davvero così? Comprendere gli errori che hanno portato all’eccidio di Hamas fornisce una base per valutare la risposta a lungo termine di Israele a quanto accaduto quel giorno. Contrariamente all’opinione generale, sosterrò che i presupposti alla base di questi errori persistono e non si rimedierà ad essi, a meno che gli israeliani non adottino un atteggiamento radicalmente diverso nei confronti dei palestinesi.
La strada verso il 7 ottobre
I pianificatori militari israeliani coniarono alla fine degli anni Sessanta il termine ebraico conceptzia, “il concetto o [errore concettuale]”. Questo termine si basava sull’idea errata che il presidente egiziano Anwar el-Sadat non sarebbe entrato in guerra almeno fino al 1974, vale a dire quando il suo esercito avrebbe acquisito aerei sovietici da combattimento avanzati grazie ai quali poteva affrontare la forza aerea dello Stato ebraico. La Commissione israeliana Agranat, che indagò su come egiziani e siriani colsero di sorpresa Israele nella guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973, ritenne in gran parte responsabile la conceptzia per l’incapacità di vedere i preparativi che avevano luogo davanti ai suoi occhi.
La futura commissione che inevitabilmente analizzerà il fatto che Israele il 7 ottobre 2023 sia stato preso alla sprovvista, di certo attribuirà quella sorpresa a una seconda conceptzia erronea, che David Makovsky del Washington Institute for Near East Policy spiega così:
Sotto il pesante fardello di governare la Striscia di Gaza, Hamas sentirebbe il bisogno di mettersi alla prova attraverso la resa economica. Nello specifico, gli incentivi di tipo economico a favore di Hamas mitigheranno la sua convinzione fondante secondo cui Israele è un’entità illegittima la cui stessa esistenza deve essere annientata e i suoi cittadini uccisi. Questa conceptzia israeliana era dovuta a molti fattori, ma fondamentalmente si basava sull’idea che Hamas stesse affrontando un’evoluzione organizzativa per cui nel presente avrebbe apprezzato anche un modesto aumento del tenore di vita a Gaza. Il progresso economico avrebbe portato la calma, poiché avrebbe dato ad Hamas qualcosa da perdere.
Da notare, l’espressione “qualcosa da perdere”: queste parole riassumono la nuova conceptzia, la convinzione che Hamas possa essere comprata o mitigata attraverso vantaggi economici. Il titolo di un articolo pubblicato alcuni giorni prima del 7 ottobre ha colto lo spessore di questo malinteso: “L’IDF e lo Shin Bet chiedono al governo di non interrompere le attività economiche con Gaza. Gli alti funzionari della sicurezza chiedono allo schieramento politico di aumentare i permessi di lavoro per gli abitanti di Gaza al fine di mantenere la calma al confine” [1]. Come ha spiegato il colonnello in pensione Eran Lerman poco prima del 7 ottobre:
Il centrodestra al potere in Israele adotta un approccio di “gestione del conflitto” nei confronti della questione palestinese. Preferisce lasciare aperta la prospettiva che un giorno la risoluzione del conflitto israelo-palestinese possa essere possibile, man mano che la regione cambia ed emergono nuovi leader. Ma fino ad allora, secondo loro, ciò che Israele dovrebbe fare è allentare le tensioni e migliorare le condizioni di vita dei palestinesi in Cisgiordania e Gaza, riservandosi al tempo stesso il diritto di rispondere alle attività terroristiche in modo selettivo e basato sull’intelligence.
La conceptzia ha trasformato le raccapriccianti minacce di Hamas in parole prive di consistenza. L’establishment della sicurezza ignorò nel 2019 le parole di Fathi Hammad: “Stiamo affilando i coltelli. (…) Se moriremo, sarà quando uccideremo voi [ebrei] e vi taglieremo la testa, se Dio vuole. (…) Dobbiamo attaccare ogni ebreo del pianeta: massacrare e uccidere. (…) Morirò mentre faccio saltare in aria e taglio – cosa? La gola degli ebrei e le loro gambe. Li faremo a brandelli, se Dio vuole”. Solo ignorando del tutto affermazioni del genere, Aryeh Deri, un importante politico haredi (ultraortodosso), ha potuto ammettere dopo il 7 ottobre che “non avrebbe mai immaginato di avere a che fare con tali assassini capaci di agire con tanta crudeltà”.
Chi invece ha rifiutato la conceptzia ha dovuto affrontare esclusione e disprezzo. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir si è lamentato del fatto che i suoi appelli ad uccidere i leader di Hamas gli sono valsi l’esclusione dalle discussioni negli incontri di Gabinetto. Itai Hoffman, presidente di un’organizzazione per la sicurezza operante nei pressi del confine di Gaza, ha accusato il governo: “Vi avevamo avvertiti della situazione. Com’è possibile che voi vi siate seduti qui e siate rimasti in silenzio? (..). Ci avete abbandonato”. Un membro del kibbutz ha rilevato che la sua comunità aveva solo quattro fucili, aggiungendo: “Urliamo da anni”. Yehiel Zohar, sindaco di una città nei pressi di Gaza, si è lamentato del fatto che alti funzionari della sicurezza avevano screditato i suoi avvertimenti, con mappe, percorsi di infiltrazione e piani di difesa, riguardo a centinaia di assassini che sarebbero entrati nella sua città per uccidere i suoi abitanti: “Non ci pensate, non accadrà”.
Avichai Brodetz, la cui famiglia è stata presa in ostaggio da Hamas, ha espresso la sua amara frustrazione nei confronti di Hamas a un parlamentare del Likud.
L’esercito avrebbe potuto facilmente distruggerli, ma l’intera conceptzia dell’IDF è crollata [ossia era sbagliata]. Hamas lo aveva capito, ed è stata molto più intelligente di noi. Ha effettuato un’operazione eccezionale, i suoi miliziani hanno stuprato le nostre donne e ucciso i nostri bambini perché l’IDF non era lì. Ciò non è avvenuto a causa di Hamas, ma per colpa della conceptzia da voi utilizzata. Sarebbe stato facilissimo distruggere Hamas con carri armati e aerei, ma semplicemente non erano presenti.
Quando Hamas si addestrava alla luce del sole, conducendo un’esercitazione armata, facendo esplodere uno muro posticcio e facendo irruzione in unacittà posticcia, per poi pubblicare un video di ciò, gli israeliani hanno ignorato tutto ciò. Come riporta il Jerusalem Post, “alle vedette dell’IDF che avevano espresso la loro preoccupazione in merito alla situazione esistente lungo il confine di Gaza nei mesi antecedenti l’attacco del 7 ottobre è stato detto di smettere di infastidire i loro comandanti e sono state addirittura minacciate di essere sottoposte al giudizio della corte marziale”. Un sottufficiale specializzato in dottrina militare di Hamas ha redatto tre documenti in cui metteva in guardia sui piani di Hamas, evidenziava le sue esercitazioni che simulavano un’invasione oltre confine nelle residenze israeliane e riportava altresì che alti funzionari di Hamas erano venuti ad assistere a tali esercitazioni. I moniti lanciati sono arrivati ai vertici della gerarchia, per poi essere accolti con la risposta: “È frutto della sua immaginazione”. Un alto ufficiale dell’IDF ha bollato tali moniti come “fantasie” rifiutandosi di agire di conseguenza. Solo un giorno prima dell’attacco, una vedetta aveva riferito di aver notato attività sospette, ma i comandanti non hanno “dato credito” alle preoccupazioni espresse, dicendole che “Hamas non è altro che un branco di cialtroni, che non faranno nulla”.
Molti osservatori ritengono personalmente responsabile della conceptzia il premier Benjamin Netanyahu. Pertanto, l’analista della difesa israeliano Yoav Limor rileva che Netanyahu
Ha promesso di eliminare Hamas affermando che Hamas è l’ISIS, continuando tuttavia a consentire di fatto all’organizzazione di svilupparsi attraverso vari mezzi, tra cui il denaro, i camion di rifornimenti, carburante, elettricità, manodopera e altro ancora. Il premier, che vedeva Hamas come un diavolo, avrebbe dovuto distruggerlo, ma durante il suo lungo governo, ha fatto il contrario e così Hamas è prosperata ed è diventata un mostro. Netanyahu ha di fatto legittimato Hamas, e ciò ha permesso che si creasse un’idea errata attorno ad essa.
Il giornalista israeliano Nadav Shragai concorda, ritenendo Netanyahu “responsabile di questo errore concettuale e delle sue conseguenze. Ne è il padre, la madre e il custode”. A dirla tutta, aggiunge Shragai,
va notato che quasi tutti i più alti funzionari politici e militari, di Destra e di Sinistra, e anche la maggior parte dei media, si sono schierati a sostegno della politica di separazione, sia considerandola una visione sistematica del mondo che accettandola. Quasi tutti hanno sostenuto Netanyahu quando si è astenuto dallo schiacciare Hamas via terra; quasi tutti hanno minimizzato la minaccia di Hamas.
In questo senso, Ben Gvir parla di uno “partito della conceptzia” che comprendeva l’ex premier Naftali Bennet e gli ex capi di Stato Maggiore dell’IDF Benny Gantz e Gadi Eizenkot. La conceptzia aveva un seguito tra coloro che vivevano più vicini a Gaza. Hanan Dann, un membro di un kibbutz distrutto il 7 ottobre, spiega:
Eravamo lieti che i lavoratori di Gaza venissero in Israele muniti di permessi di lavoro per trovare un’occupazione e conoscere israeliani, e rendersi conto che non siamo tutti “quei diavoli”. Credevamo davvero che le cose stessero cambiando, che forse Hamas fosse maturato da gruppo terroristico a persona adulta che si assumeva la responsabilità della propria popolazione, preoccupandosi del suo benessere. E quel concetto ci è davvero esploso in faccia.
Per riassumere: la leadership israeliana si è accorta a malapena della natura islamista e jihadista di Hamas, ritenendo che la forza economica, la superiorità militare e il progresso tecnico di Israele contribuissero a rendere Hamas più moderata e meno pericolosa.
Cambiamenti visibili
La resa dei conti dopo il 7 ottobre è stata brutale. “Tanti paradigmi e politiche”, scrive Davud M. Weinberg del Migsav Institute, “si sono rivelati fallimentari, deliranti, fallaci e assurdi”. L’idea di una Gaza governata da Hamas e pacificata dal benessere economico, conclude Martin Sherman dell’Israel Institute for Strategic Studies, non è altro che un “sogno allucinante e irrealizzabile”.
In reazione a tali critiche, i politici hanno cambiato improvvisamente e radicalmente tono. Netanyahu ha parlato almeno quattordici volte di aggiudicarsi la vittoria. “La “vittoria richiederà tempo (…) ma per ora siamo concentrati su un unico obiettivo, che è quello di unire le nostre forze e correre verso la vittoria”. Ai soldati ha detto: “L’intero popolo di Israele è al vostro fianco e assesteremo un duro colpo ai nostri nemici per ottenere la vittoria. Avanti fino alla vittoria!” E ancora: “Ne usciremo vittoriosi”.
Molti altri nel governo ne hanno seguito l’esempio. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato di aver informato il presidente Joe Biden che la vittoria di Israele “è essenziale per noi e per gli Stati Uniti”. Gallant ha detto ai suoi soldati: “Sono responsabile di portare la vittoria”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha annunciato la sospensione di “tutte le spese di bilancio per indirizzarle verso un unico obiettivo: la vittoria di Israele”. E ha definito l’obiettivo della guerra di Israele contro Hamas “una vittoria schiacciante”. Benny Gantz, un membro del Gabinetto di Guerra ha parlato di “momento della resilienza e della vittoria”. Il vicepresidente della Knesset ha invitato Israele a “bruciare Gaza”. Un anonimo funzionario della Difesa ha dichiarato che “Gaza finirà per trasformarsi in una tendopoli. Non ci saranno edifici”. Il ministro del Patrimonio ha appoggiato l’idea dell’utilizzo di armi nucleari a Gaza.
Anche schiere di altri israeliani hanno invocato la vittoria e la distruzione di Hamas:
Naftali Bennet, ex primo ministro: “È arrivato il momento di distruggere Hamas”.
Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale: Hamas “dovrebbe essere distrutta”.
Meir Ben Shabbat, ex consigliere per la sicurezza nazionale: “Israele dovrebbe distruggere tutto ciò che è connesso a Hamas”.
Chuck Freilich, ex vice-consigliere per la Sicurezza nazionale (su Ha’aretz): “Ora Israele deve infliggere a Hamas una sconfitta inequivocabile”.
Tamir Heyman, ex capo dell’intelligence dell’IDF: “Dobbiamo vincere”.
Amos Yadlin, ex capo dell’intelligence militare dell’IDF: “Distruggeremo Hamas”.
Yossi Cohen, ex capo del Mossad: “Eliminare i dirigenti di Hamas è una decisione che deve essere presa”.
I personaggi pubblici hanno manifestato un’aggressività verbale senza precedenti. Gallant ha definito i membri di Hamas “animali umani” e Bennett “nazisti”. Il conduttore televisivo Shay Golden è esploso in una sfuriata mentre era in onda, dicendo:
Vi distruggeremo. Continuiamo a dirvelo ogni giorno: stiamo arrivando. Verremo a Gaza, verremo in Libano, verremo in Iran. Verremo ovunque. Dovete tenerlo presente. Avete idea di quanti di voi uccideremo per ognuno dei 1.300 israeliani che avete massacrato? Il bilancio delle vittime raggiungerà numeri mai visti nella storia dei Paesi arabi. (…) Vedrete numeri che non avreste mai immaginato fossero possibili.
Una canzone hip-hop che promette di scatenare l’inferno sui nemici di Israele è balzata in testa alle classifiche sulle piattaforme social. Un cantante pop ha esortato Israele a “cancellare Gaza. Non lasciare lì una sola persona”.
E gli elettori israeliani? Il sondaggio commissionato dal Middle East Forum il 17 ottobre [2] ha riscontrato uno straodinario consenso a favore della distruzione di Hamas e di un’operazione di terra finalizzata a raggiungere quest’obiettivo. Alla domanda “Quale dovrebbe essere l’obiettivo primario di Israele?” nella guerra attuale, il 70 per cento dell’opinione pubblica ha risposto: “Eliminare Hamas”. Per contro, soltanto il 15 per cento ha risposto “Garantire il rilascio incondizionato dei prigionieri tenuti in ostaggio da Hamas” e il 13 per cento “Disarmare completamente Hamas”. Sorprendentemente, il 54 per cento degli arabi israeliani (o più tecnicamente, gli elettori della Lista Araba Unita, un partito arabo radicale anti-sionista), ha fatto della “eliminazione di Hamas” il suo obiettivo preferito.
Di fronte alle due opzioni: condurre un’operazione di terra a Gaza per sradicare Hamas o evitare un’operazione di terra a favore di un altro modo di far fronte a Hamas, il 68 per cento ha scelto la prima opzione e il 25 per cento la seconda. Questa volta, il 52 per cento degli arabi israeliani è d’accordo con la maggioranza.
In breve, un clima fortemente contrario a Hamas e all’Autorità Palestinese domina la politica israeliana, con solo i due partiti di Sinistra (Laburista e Meretz) in qualche modo in opposizione. Anche la maggioranza degli arabi israeliani riconosce il pericolo che Hamas e l’Autorità Palestinese rappresentano per la loro sicurezza e incolumità. La vittoria è diventata una questione di consenso, o almeno così sembrava.
Inversione rapida
Ma quella ferocia ha significato un cambiamento fondamentale di prospettiva o solo un fugace impeto emotivo? Sempre più prove fanno pensare alla seconda ipotesi. Lo scrittore americano Jack Engelhard alla fine di novembre rileva cos lo stato d’animo di Israele: “Sono talmente depresso (…) non sento quasi più parlare di vittoria”. In effetti, la robusta retorica della vittoria successiva al 7 ottobre si è conclusa bruscamente come era iniziata, sostituita dai negoziati con Hamas sulle condizioni per il rilascio solo di alcuni degli ostaggi. Più profondamente, sia i burocrati che l’opinione pubblica israeliana hanno mostrato segni di un frettoloso ritorno agli atteggiamenti e alle politiche che avevano portato al 7 ottobre.
Queste politiche si basano su due presupposti principali: che i benefici economici, vale a dire più permessi di lavoro in Israele, una zona di pesca più estesa, finanziamenti esterni, diano ai palestinesi qualcosa da perdere, ammansendoli e rendendoli meno inclini ad aggredire; e che un Israele molto più potente e più avanzato del suo nemico può permettersi di fare concessioni.
Gli indizi di questa triste regressione sono i seguenti.
L’apparato di sicurezza ha approvato l’ingresso in Israele di 8 mila lavoratori cisgiordani, principalmente per impiegarli in lavori agricoli. Lo ha fatto in risposta al ministro dell’Agricoltura israeliano che ha assicurato ai suoi colleghi che i lavoratori erano stati sottoposti a controlli e non rappresentavano alcun pericolo. Il fatto che migliaia di lavoratori provenienti da Gaza avessero spiato Israele e si fossero resi complici del massacro del 7 ottobre pareva essere sconsideratamente dimenticato.
Nella stessa Cisgiordania, il generale israeliano responsabile del comando ha impartito ordini contraddittori che limitavano l’ingresso agli arabi, ordini apparentemente inflessibili, ma che hanno cambiato molto poco nella sostanza. Come spiegato dal Consiglio regionale di Binyamin: “Non è consentito alcun ingresso ai lavoratori arabi nelle città israeliane. Potranno accedere nelle aree industriali solo di notte”. I predatori e gli assassini commettono i loro crimini solo alla luce del giorno?
L’Autorità Palestinese (AP) che formalmente governa parte della Cisgiordania, non solo ha offerto pieno sostegno al massacro di Hamas, ma il movimento Fatah del presidente dell’AP Mahmoud Abbas si è anche vantato di avervi avuto un ruolo. L’AP ha inoltre chiesto alle moschee nelle loro giurisdizioni di insegnare ai fedeli che lo sterminio degli ebrei costituisce un dovere islamico. Nonostante ciò, il governo israeliano continua a inviare all’Autorità Palestinese il denaro dei contribuenti. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha approvato questa decisione, affermando che “è opportuno trasferire, e farlo immediatamente, i fondi all’Autorità Palestinese in modo che vengano utilizzati dalle sue forze che aiutano a prevenire il terrorismo”. (La questione dei benefici economici sembra non morire mai.)
Ben-Gvir ha cercato di allentare le regole di ingaggio per gli agenti di polizia, consentendo loro in caso di emergenza di sparare alle gambe degli aggressori, ma Gantz è riuscito a modificare la votazione, mantenendo così in vigore disposizioni più restrittive.
Cinque giorni dopo il 7 ottobre, Israele ha chiuso il suo ministero della Diplomazia Pubblica, fornendo un’immagine perfetta delle attività di informazione storicamente infelici di Israele.
Al contrario, il ministro delle Comunicazioni israeliano ha definito Al Jazeera, il canale tv del Qatar, una “portavoce della propaganda” che incita contro Israele e ha tentato di chiudere i suoi uffici a Gerusalemme. Il governo ha scartato la sua proposta, per non innervosire il governo qatariota, che aveva contribuito al rilascio di diversi ostaggi, ignorando così il suo ruolo negli attacchi del 7 ottobre. Yossi Cohen, l’ex capo del Mossad, si spinge oltre e preferisce “astenersi dal criticare il Qatar”.
Prima del massacro, Israele aveva fornito a Gaza 49 milioni di litri di acqua, ovvero il 9 per cento del consumo giornaliero del territorio, attraverso tre acquedotti. Dopo il massacro ha tagliato tutti i rifornimenti. Ma questo per appena venti giorni, dopodiché Israele ha reimmesso 28,5 milioni di litri di acqua attraverso due acquedotti. E perché non tutti e tre? Perché Hamas aveva danneggiato il terzo il 7 ottobre, rendendo necessario ripararlo. Ma non c’è nulla di cui temere: il colonnello dell’IDF Elad Goren, ha annunciato che è stato “organizzato un team di esperti che valuterà quotidianamente la situazione umanitaria a Gaza”. Avigdor Liberman, leader del Partito Yisrael Beiteinu ha definito questo una “pura e semplice idiozia”. Sarebbero riprese anche le forniture di carburante.
I discorsi sulla vittoria non hanno impedito al negativismo di alzare rapidamente la testa. “Non vedo alcun tipo di vittoria che ci possa far uscire da questo disastro”, commenta il creatore di Fauda Avi Issacharoff. Orly Noy, giornalista israeliana nota per il suo impegno in B’Tselem, dice a gran voce ai suoi connazionali israeliani: “Non ho alcun interesse nella vittoria che ci state offrendo. (…) Sono pronta ad ammettere la sconfitta”.
Il preside di un liceo statale di Tel Aviv ha trascorso 45 minuti a parlare con tre studenti che erano venuti a scuola avvolti nelle bandiere israeliane. Durante la conversazione, ha riferito uno studente, il preside ha sottolineato che altri studenti si sono opposti a tale dimostrazione di patriottismo, aggiungendo che “se moltissimi studenti venissero a scuola avvolti nelle bandiere israeliane, metterebbe fine alla cosa immediatamente”. La situazione è arrivata a un punto tale che perfino il quotidiano di estrema Sinistra Haˈaretz ha pubblicato un articolo dal titolo: “Smettetela di applaudire Hamas per la sua ‘umanità’”.
L’organizzazione Regavim ha avvertito che l’Autorità Palestinese ha costruito quasi 20 mila strutture vicino alla Linea Verde, al confine con la parte della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano (Area C); ha definito questo fenomeno “spaventoso e minaccioso (…) un vero pericolo; una bomba ad orologeria”. Quando queste informazioni vengono fornite, l’establishment della sicurezza risponde ora come ha fatto in precedenza a una minaccia simile proveniente da Gaza: preferirebbe ignorare questo argomento o considerare gli edifici come costruzioni organiche realizzate da individui.
Se un sondaggio di metà ottobre mostrava che il 70 per cento degli intervistati voleva “eliminare Hamas”, in un sondaggio di metà novembre condotto dal Jewish People Policy Institute [3], soltanto il 38 per cento ha affermato che si potrà parlare di vittoria “quando Gaza non sarà più sotto il controllo di Hamas”, registrando così un calo di circa il 50 per cento. Alla domanda sull’obiettivo più importante della guerra, un sondaggio di novembre condotto tra gli ebrei israeliani da ricercatori dell’Hebrew University of Jerusalem ha rilevato che secondo il 34 per cento degli intervistati occorre mettere fuori gioco Hamas (e secondo il 46 percento è necessaria la restituzione degli ostaggi). Alla domanda se fare “concessioni dolorose” per garantire il rilascio degli ostaggi, il 61 per cento si è detto favorevole, quasi il triplo del 21 per cento a favore sei settimane prima. Secondo un sondaggio condotto dal canale tv israeliano Channel 14, tra il 32-52 per cento degli intervistati ha espresso la propria approvazione per l’accordo sugli ostaggi. Le tre percentuali, 38, 34 e 32, sono straordinariamente coerenti.
I politici e l’establishment della sicurezza in passato si sono distaccati dalla realtà strategica (ad esempio, gli Accordi di Oslo, il ritiro da Gaza), ma non da questa. In questo caso, l’opinione pubblica ha messo da parte la questione della distruzione di Hamas a favore del salvataggio degli ostaggi. Come ha affermato un sopravvissuto, Nadav Peretz: “Vogliamo due cose. Vedere Hamas distrutta e la liberazione degli ostaggi. Al momento, la seconda cosa supera la prima”. Un sondaggio condotto dal quotidiano Maariv a metà novembre ha rilevato che il Partito di Unità Nazionale guidato da Gantz ex capo di Stato Maggiore e incarnazione dell’establishment della sicurezza, è balzato dai 12 seggi ottenuti nelle precedenti elezioni a 43 seggi conquistati nella consultazione elettorale successiva. Secondo Nimrod Nir, uno psicologo che ha condotto il sondaggio della Hebrew University, “il nostro sondaggio mostra che la popolazione israeliana ha sempre anticipato le decisioni de politici in merito a questo argomento. Quando gli israeliani hanno appreso la notizia degli ostaggi presi da Hamas e in quali condizioni si trovavano, la pressione per fare qualcosa è aumentata”.
I politici hanno iniziato a cercare modi per far quadrare il cerchio. L’ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Michael Oren ha suggerito di modificare l’obiettivo della guerra passando “dall’annientamento di Hamas al garantire la sua resa incondizionata”, consentendo così a Hamas di continuare ad esistere. Più specificamente, Oren ha auspicato di offrire a Hamas “il libero passaggio da Gaza (…) in cambio del rilascio degli ostaggi”. I discorsi riguardo alla distruzione di Hamas erano quasi svaniti.
L’accordo sugli ostaggi
A proposito di ostaggi, la maggiore inversione di rotta è stata proprio a loro riguardo. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha definito Hamas “il male assoluto” e l’ex candidato presidenziale Tim Scott ha offerto un consiglio agli israeliani, riferendosi a Hamas: “Non potete negoziare con il male. Dovete distruggerlo”. Ma appena un mese e mezzo dopo il massacro e settimane dopo la valanga di appelli per la distruzione di Hamas, il governo israeliano ha raggiunto un accordo con il gruppo jihadista, minando così la sua posizione morale e ricadendo nella politica negoziale che ha portato in primo luogo al 7 ottobre scorso.
Il contenuto dell’accordo non ha fatto altro che peggiorare le cose, poiché un Israele disperato ha fatto la maggior parte delle concessioni. In cambio della liberazione di meno di un quarto degli ostaggi israeliani, tutti donne e bambini, Israele ha accettato di rilasciare 150 donne e minori prigionieri di sicurezza (ossia prigionieri arrestati in relazione a reati legati alla sicurezza nazionale); di consentire un aumento delle forniture di acqua, cibo, medicine e di carburante a Gaza; di non inviare per quattro giorni aerei da guerra sul sud di Gaza e di non impegnarsi nella sorveglianza aerea con droni per sei ore al giorno e infine di non attaccare Hamas.
Prendiamo in considerazione alcune implicazioni di queste condizioni:
Soltanto un numero irrisorio di ostaggi implica che il processo negoziale continuerà a tempo indeterminato, con molteplici interruzioni. Ciò soddisfa le esigenze di Hamas e allo stesso tempo ostacola la campagna militare israeliana. Come spiega il colonnello in pensione Shai Shabtai, “la continua detenzione degli ostaggi da parte di Hamas ha un obiettivo: ricorrere a negoziati senza fine per minare lo smantellamento del suo potere politico e militare”.
L’interruzione della sorveglianza consente ai combattenti di Hamas di fuggire dai tunnel assediati o di portare rifornimenti nei tunnel.
Lo scambio di prigionieri di sicurezza palestinesi con vittime del 7 ottobre conferma la tesi di Hamas secondo cui esiste un’equivalenza morale tra criminali e civili innocenti rapiti con la violenza.
A posteriori, non sorprende che quello stesso gruppo dirigente che ha portato al 7 ottobre abbia firmato l’accordo sugli ostaggi, perché la responsabilità del primo lo ha reso vulnerabile agli appelli lanciati dalle famiglie e dai Paesi stranieri. Il fatto che Netanyahu e altri, come ad esempio il comandante dell’Unità 8200 dell’esercito israeliano che raccoglie circa l’80 per cento dell’intelligence israeliana [4], si siano rifiutati di assumersi la responsabilità non ha fatto altro che aggravare il problema. Avichai Brodetz sopra citato, la cui famiglia è nelle mani di Hamas, ha affermato: “Vivete nell’illusione e incolpate Hamas mentre siete voi da biasimare. Il problema eravate voi. Mettetevelo in testa, e forse allora potrete risolvere il problema”.
C’è di peggio. Il 22 novembre, Netanyahu ha annunciato in modo insolitamente pubblico di aver dato istruzioni al Mossad di uccidere i leader di Hamas “ovunque si trovino”, compresi implicitamente quelli presenti in Qatar. Alla domanda se l’accordo per il cessate il fuoco con Hamas garantisca l’immunità ai suoi leader, il premier ha risposto negativamente: “Non c’è alcun impegno nell’accordo a non agire in una tregua contro i leader di Hamas, chiunque essi siano”. E ha inoltre aggiunto che “una clausola del genere non esiste”. Due giorni dopo, tuttavia, Georges Malbrunot del quotidiano Le Figaro ha riportato che una “fonte in genere ben informata” gli ha comunicato che Netanyahu aveva assicurato al Qatar all’inizio dei negoziati per liberare gli ostaggi che “il Mossad non si sarebbe recato nell’emirato per uccidere i leader politici di Hamas”. Il Jerusalem Post ha poi “confermato indirettamente che Israele ha preso degli impegni con il Qatar in merito a tale questione”.
Occorre notare che non tutti gli israeliani antepongono le prorie preoccupazioni personali all’interesse nazionale. Eliahu Liebman, padre di Elyakim Liebman ancora nelle mani di Hamas, ha sintetizzato il dilemma nella sua coraggiosa protesta contro l’accordo proposto: “Vogliamo che tutti i nostri ostaggi vengano rilasciati, e l’unico modo per farlo è attaccare il nemico con tutte le nostre forze, senza interruzioni e senza cedere alle loro richieste, come se fossero i vincitori”. Tikvah, un’organizzazione di famiglie legate agli ostaggi, concorda: “Il modo più corretto ed efficace per recuperare gli ostaggi è esercitare una pressione incessante su Hamas, finché gli ostaggi non diventino un peso per Hamas piuttosto che una risorsa”. Ma le invocazioni hanno soffocato quelle voci.
Conclusione
In un articolo di fine ottobre, ho osservato che “l’infiammato stato d’animo israeliano del momento probabilmente svanirà col tempo, man mano che i vecchi modelli si riaffermeranno e ritornerà lo stato normale”. Mi sono sbagliato per un aspetto: non ci è voluto tempo, piuttosto, è successo quasi subito, nel giro di due settimane. Contrariamente all’impressione iniziale che “tutto fosse cambiato”, nel momento della stesura di questo articolo, fine novembre, non è cambiato quasi nulla.
Questa inversione rientra anche in uno schema molto più ampio. Dal 1882 ad oggi, le due parti in lotta si sono comportate in modo decisamente sterile I palestinesi hanno una mentalità di rifiuto (non accettare mai e poi mai tutto ciò che è ebraico e israeliano), mentre i sionisti si attengono alla conciliazione (accettateci e noi vi arricchiremo). Le due parti continuano a girare in tondo, senza cambiare e senza fare progressi. Il cambiamento arriverà solo quando gli israeliani romperanno con la tradizionale mentalità sionista e cercheranno la vittoria di Israele.
https://www.meforum.org/65275/the-rapid-return-of-israel-disastrous-policy
Traduzione di Angelita La Spada
[1] L’acronimo IDF si riferisce alle Forze di Difesa Israeliane; Shin Bet (o Shabak) è il servizio di sicurezza interna di Israele.
[2] Shlomo Filber e Zuriel Sharon di Direct Polls Ltd. hanno condotto il sondaggio su 1.086 israeliani adulti; il sondaggio ha un errore di campionamento statistico del 4 per cento.
[3] Da theMadad.com con 666 intervistati dal 15 al 18 novembre.
[4] Secondo un resoconto, quel comandante trascurò i suoi doveri di intelligence per aiutare gli svantaggiati, far fronte al cambiamento climatico e varie questioni sociali.
Da quando, a fine novembre, è stata pubblicata l’analisi di Daniel Pipes, la breve tregua con Hamas finalizzata a liberare gli ostaggi è terminata. L’obiettivo di distruggere Hamas all’interno della Striscia resta ufficialmente quello principale, tuttavia, lo scenario è gravido di incognite. Le continue pressioni americane, al limite dell’ingerenza, condizionano fortemente Israele nella conduzione della guerra, così come le pressioni umanamente comprensibili delle famiglie degli ostaggi ancora prigionieri del gruppo terrorista. Lo scenario potrebbe rapidamente cambiare a sfavore di Israele. Solo la determinazione israeliana di terminare il governo di Hamas nella Striscia, può significare che la vittoria è stata pienamente conseguita. Non raggiungere questo obiettivo equivarrebbe a una sconfitta.
(n. d. r)