Il Bahrein, stato sostanzialmente satellite dell’Arabia Saudita a maggioranza sciita, segue gli Emirati Uniti e si avvia a siglare accordi con Israele. Il benestare giunge direttamente da Riad, senza il quale nulla si sarebbe mosso. Non ci sono dubbi che ci troviamo di fronte a una novità positiva, ma certamente non a quella svolta epocale che, con comprensibile enfasi pre-elettorale, l’amministrazione Trump, con il concorso del gabinetto Netanyahu desidera fare apparire. Dopotutto gli Emirati e il Bahrein se pure certo non in amicizia con lo Stato ebraico, non sono mai stati in guerra contro di esso, nè hanno finanziato o appoggiato il terrorismo palestinese. Di ben altra portata fu l’accordo di Camp David del 1978, che sarebbe costato la vita a Saddat, e che seguiva l’aggressione egiziana del 1967. Non c’è serio paragone, per impatto e rilevanza storico-politica. Nonostante ciò è evidente che l’avvicinamento a Israele degli Emirati e del Bahrein segna un punto di svolta sotto due aspetti fondamentali. Primo, aggira il ruolo dell’Autorità Palestinese come interlocutore privilegiato nella gestione dei negoziati con Israele, secondo, circoscrive in modo netto il campo dei suoi irriducibili nemici: Iran, Turchia, Hamas, Hezbollah e Jihad islamica.
Da anni ormai la “causa palestinese” ha perso mordente presso i potentati arabi regionali, e lo schieramenento egemone sunnita mediorientale, con Egitto, Arabia Saudita e oggi gli Emirati e il Bahrein, si è reso ancora più compatto in funzione anti-iraniana. La saldatura con gli Stati Uniti e Israele è, al momento, molto solida, ma, su di essa pesa una forte incognita. Se Trump non verrà rieletto a novembre è improbabile che la politica di Joe Biden nei riguardi dell’Iran segua la linea dura da lui impressa e determinante nell’avere agito come collante per le aperture che vediamo in atto. La saldatura attuale, in altre parole, potrebbe allentarsi in fretta se la politica di una eventuale presidenza Biden alleggerisse le sanzioni contro l’Iran e cercasse di riportare in vita il moribondo accordo sul nucleare voluto da Barack Obama.
Il garante dell’intesa attuale non è Israele, ma sono gli Stati Uniti, o meglio è l’amministrazione Trump, Netanyahu ha solo un ruolo da gregario. A evidenziarlo ulteriormente è il fatto che durante i negoziati con Israele gli Emirati hanno chiesto agli Stati Uniti l’impegno che l’annunciata estensione di sovranità sulla Cisgiordania venisse congelata, perlomeno fino al 2024. Una sua eventuale implementazione verrebbe spostata all’ultimo anno di un secondo mandato Trump se l’attuale presidente dovesse vincere. Nel caso in cui vincesse Biden la questione non si porrebbe.
Israele, dunque, rinuncia a un suo diritto, concessogli per la prima volta da una amministrazione americana dal 1967 a oggi, in nome di una distensione con degli stati arabi, i cui vantaggi eventuali saranno tutti da verificare.
Nel frattempo, la situazione sul terreno della Cisgiordania rimane inalterata. La scommessa, perchè di questo si tratta, è che nei prossimi quattro anni, vi sia un avvicendamento all’interno dell’Autorità Paestinese, e che Abu Mazen, il cui logoramento e la cui irrilevanza politica sono sempre più palesi, sia sostituito con un leader più propenso a dei negoziati con Israele che vengano visti favorevolmente da Riad, dagli Emirati, e dall’Egitto. Ma tutto questo è subordinato a un unico fattore, chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca.