Fin dal giorno successivo all’eccidio del 7 ottobre, analisti militari e agenti dei servizi segreti hanno chiamato in causa la Repubblica Islamica dell’Iran. È ormai certo che funzionari della sicurezza iraniani hanno contribuito a pianificare l’attacco a sorpresa di Hamas e dato il loro via libera all’assalto, come riportato anche dal Wall Street Journal.
La teocrazia iraniana, da decenni, è una delle principali minacce per le democrazie. Gli Ayatollah non sono impegnati solo nella guerra «per procura» contro Israele, condotta attraverso una rete di diciannove organizzazioni terroristiche, ma anche nel sostegno a Vladimir Putin e alla sua brutale aggressione dell’Ucraina. Teheran, infatti, attraverso Armenia e Kazakistan, fornisce alla Russia i droni Shahed e i missili Fateh-110 e Zolfaghar.
Il regime totalitario iraniano ha creato Hezbollah, organizzazione responsabile di terribili attentati terroristici, tra cui l’attacco suicida all’ambasciata degli Stati Uniti di Beirut nel 1983 e la strage al Jewish Community Center di Buenos Aires nel 1994. Il gruppo paramilitare libanese è una vera e propria longa manus del regime, che oggi fornisce supporto anche a Hamas e ai ribelli Houthi dello Yemen.
L’Iran, dal 1979, è stato dietro all’assassinio di ottanta dissidenti in esilio, compreso uno sul suolo americano, il diplomatico Ali Akbar Tabatabaei, leader dell’Iran Freedom Foundation. Il suo carnefice, l’americano convertito all’Islam David Belfield, vive tuttora in Iran sotto la protezione dei suoi organi di sicurezza.
La tirannia khomeinista, fin dalla sua nascita, ha soprattutto fomentato il terrorismo palestinese contro Israele e gli ebrei. Gli ayatollah hanno fatto della distruzione dello Stato ebraico la loro ragion d’essere, collocandola al centro di una visione apocalittico-millenarista legata al ritorno del Mahdī, una figura messianica destinata a instaurare il regno di Dio in terra.
In un sermone pronunciato nel 2001, Akbar Hashemi Rafsanjani definì Israele «il più orribile evento della storia», che il mondo islamico «vomiterà fuori dalle proprie viscere» attraverso un bombardamento nucleare. Per questo motivo, da più di un ventennio, la Repubblica Islamica è impegnata in un dispendioso programma nucleare.
Eppure, tutti questi fatti non hanno impedito, e tuttora non ostacolano, i rapporti diplomatici dell’Occidente con la leadership iraniana, definita persino «moderata».
Coloro che sostengono una politica estera della fermezza vengono spesso accusati di permettere all’ideologia di prevalere sul «buon senso». Ma se mai è esistito un esempio di ideologia che passa sopra ai fatti è l’approccio illusorio che i «realisti» occidentali hanno adottato nei confronti dell’Iran.
I fanatici religiosi non sono «attori razionali» dello scacchiere politico internazionale, non si faranno ammansire da concessioni economiche o diplomatiche. Gli ayatollah sono disponibili solo a tregue tattiche e temporanee, poiché sono convinti di operare secondo un piano divino.
La ricerca di «pace» e «stabilità» attraverso sempre maggiori concessioni a Teheran è una strategia suicida. Sull’Iran bisogna esercitare la massima pressione economica e militare, così da causare l’implosione della tirannia. Solo un cambio di regime può disinnescare la «bomba» iraniana. Inoltre, a differenza di Paesi come l’Iraq e l’Afghanistan, in Iran esiste un’opposizione autenticamente laica e democratica.
I dissidenti iraniani hanno bisogno di ricevere dall’Occidente lo stesso sostegno che ricevettero i dissidenti polacchi e cechi negli anni Ottanta. Ma soprattutto, necessitano del continuo e veemente supporto degli Stati Uniti d’America.
Non sempre le democrazie possono fare qualcosa contro i regimi criminali e totalitari, ma non dovrebbero nemmeno piegarsi alle loro pretese in nome di una malintesa idea di «stabilità dello scenario internazionale». La storia dimostra che solo i sistemi democratici garantiscono sicurezza e prosperità in modo duraturo.
La sopravvivenza d’Israele e l’incolumità delle società occidentali passano, necessariamente, attraverso la democratizzazione dell’Iran. I dissidenti, certo, potrebbero anche fallire e un Iran post-khomeinista precipitare nel caos etnico. È un argomento valido. Il fallimento è sempre una possibilità, salvo quando ci si rifiuta anche solo di provare ad alterare lo status quo: in questo caso diventa una certezza.