Le recenti dichiarazioni di Benjamin Netanyahu sul fatto che, anche in un ipotetico accordo con i palestinesi, sia necessario per la sicurezza di Israele mantenere il pieno controllo militare sui territori a occidente del fiume Giordano, circoscrivono in un perimetro di realismo e pragmatismo le aperture del cuore di Donald Trump manifestate durante il suo soggiorno nello Stato ebraico. La grande assente durante la visita del presidente americano in Israele è stata infatti la realtà, al suo posto si è dispiegato tutto un apparato festoso e festante dove i fatti si sono trasformati nella favola bella delle attuali “condizioni favorevoli perché si dia la pace”. Purtroppo però sorrisi, abbracci e molto, that’s amore non possono trasformare in pane quelle che sono pietre incommestibili. Sempre Netanyahu ha ribadito che “La radice del problema è il persistente rifiuto dei palestinesi di riconoscere Israele come patria del popolo ebraico in nessuno dei suoi confini”. Rifiuto originario, di cui non è mai stato fatto alcun mistero. Nei libri di scuola sui quali studia quella gioventù palestinese che Abu Mazen ha affermato senza vergogna davanti a Trump, è educata nel “rispetto e nella pace”, la mappa della Palestina è priva della presenza di Israele.
Il pragmatismo americano ha spinto per un rinsaldamento con l’Arabia Saudita in funzione antisciita, plasticamente manifestato nell’accordo commerciale per 380 miliardi di dollari che Trump ha siglato a Riad prima della sua partenza per Israele. Secondo Trump i sauditi giocheranno un ruolo nel far sì che riprendano i negoziati e si arrivi addirittura a una pace duratura. Ma la realtà, di nuovo, ci consegna al di là degli auspici e di un futuro quantomeno incerto, fatti nudi e crudi come quello del mancato trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. La Casa Bianca ha indicato che Trump firmerà, come i suoi predecessori, la proroga al suo trasferimento.
La rinuncia al trasferimento dell’ambasciata si inserisce nella cornice di quella che è la direzione di marcia che gli Stati Uniti hanno assunto, il rilancio dei negoziati, senza però avere in mano nulla di concreto su cui basare l’ottimismo di un loro esito positivo. Una disponibilità saudita a cooperare con gli USA a difesa dei propri interessi e dunque anche, in parallelo, a collaborare con Israele è unicamente funzionale alla contingenza e non si vede come possa ammorbidire l’intransigenza palestinese soprattutto sul punto centrale sottolineato da Netanyahu, il riconoscimento non puramente fattuale, ma politico, dell’esistenza di Israele.
In questo senso la dichiarazione del primo ministro israeliano sulla necessità di Israele di mantenere comunque anche in eventuale esito favorevole dei negoziati il controllo militare in Cisgiordania riafferra la realtà per i capelli e crea le condizioni di un possibile attrito con l’amministrazione Trump.