«La verità, vi prego, su Marwan Barghouti», si dovrebbe chiedere in questi giorni, parafrasando W.H. Auden. Di recente, il terrorista palestinese, in carcere in Israele dal 2002, è stato oggetto di alcuni articoli elogiativi e quasi apologetici, come quello de il post. Barghouti, con sempre maggiore insistenza, è presentato come il solo leader palestinese capace di concordare una pace con lo Stato ebraico e gestire il post-Hamas a Gaza.
Si tratta, come sanno tutti coloro che guardano alla realtà mediorientale senza lenti ideologiche, di una pia illusione. Barghouti, infatti, non è il «Nelson Mandela della Palestina», bensì un assassino sanguinario imbevuto di antisemitismo.
Durante la prima Intifada, nel 1987, emerse come una delle principali figure militari del partito Fatah. Guidò i palestinesi in violenti scontri contro le forze militari e gravi attentati a danno dei civili israeliani. Nello stesso anno, fu arrestato da Israele ed estradato in Giordania, dove rimase fino al 1994, anno in cui tornò in Cisgiordania secondo i termini degli Accordi di Oslo. Nel 1996 fu eletto al «Consiglio legislativo palestinese», dove salì di grado fino al titolo di Segretario generale di Fatah nei «Territori occupati». Tuttavia, in seguito, ebbe un litigio con Yasser Arafat, la cui amministrazione accusò di corruzione.
Con lo scoppio della Seconda Intifada, nel 2000, Barghouti divenne un leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Capeggiò marce verso i posti di blocco israeliani con l’intento di provocare i soldati dell’IDF e causare scontri. Divenne una presenza visibile in molte manifestazioni e funerali di «martiri» palestinesi coperti dalla stampa araba e occidentale. Nei discorsi che tenne in tali eventi, Barghouti esortò le folle a persistere nel tentativo di espellere con la forza Israele dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza.
Sotto il suo comando, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si resero responsabili di numerosi attacchi contro Israele, tra cui un attentato suicida in un bar di Gerusalemme nel marzo 2002, in cui persero la vita 11 civili e ne rimasero feriti più di 50, e altri due attentati kamikaze a Tel Aviv nel gennaio 2003, che provocarono la morte di 23 persone e il ferimento di oltre un centinaio.
Barghouti fu catturato dall’esercito israeliano a Ramallah, sua città natale, nell’aprile del 2002 con l’accusa di terrorismo e per l’omicidio di 26 persone. Nel corso del processo, ribadì il suo sostegno alla «resistenza» armata. Alla fine, fu condannato per omicidio con ben cinque sentenze all’ergastolo.
Dal suo eremo carcerario, nel 2007, ebbe un ruolo importante anche nell’elaborazione dell’accordo della Mecca tra Hamas e Fatah, che esortava le due parti a porre fine agli scontri militari tra fazioni a Gaza e a concentrarsi nella lotta all’«occupante sionista».
Un terrorista pluriomicida non può garantire né una pace duratura né la sicurezza d’Israele. Bisogna, pertanto, sperare che la leadership israeliana lasci Barghouti scontare pienamente la sua pena nella prigione di Ofer e non commetta il medesimo errore fatto con Arafat, ossia credere che un lord of terror possa mai diventare una colomba.