Il 20 maggio del 2017, nel suo primo viaggio presidenziale oltreoceano, Donald Trump scelse Riad come scalo iniziale del suo tour in Medioriente. Fu un gesto di palese discontinuità con l’amministrazone Obama, i cui rapporti con l’Arabia Saudita si erano fortemente raffreddati dopo l’entrata in essere del JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto dall’ex presidente e siglato nel luglio del 2015. Durante la sua campagna elettorale Trump aveva più volte definito l’accordo, il “peggiore del secolo” e garantito che, una volta eletto presidente, ne sarebbe uscito, cosa che fece un anno dopo dalla sua visita a Riad, nel maggio del 2018.
La visita a Riad fu il passo inaugurale di una rinnovata strategia mediorientale, i cui frutti progressivi si sono sviluppati per tappe, culminando negli Accordi di Abramo del 2020 e nella disponibilità del Sudan a una normalizzazione dei rapporti con Israele.
La strategia, ad oggi compiutamente manifesta, ha avuto come obbiettivo quello di riqualificare l’Iran come pericolo principale per l’assetto regionale e, conseguentemente, di colpirlo non militarmente ma economicamente attraverso una serie di sanzioni. Nel contempo è stata costruita l’alleanza con una costellazione sunnita di Stati, Arabia Saudita in testa, che condividono con gli Stati Uniti e con Israele, la stessa prospettiva.
Perchè tutto questo potesse accadere era necessario che gli Stati Uniti, non solo ricucissero i rapporti con la Casa di Saud ma rinsaldassero con fermezza il rapporto privilegiato con Israele, anch’esso fortemente compromesso dalla presidenza Obama, e culminato in una delle più ostili risoluzioni contro lo Stato ebraico mai licenziate dall’ONU, la Risoluzione 2334 del dicembre 2016, fatta passare con l’assenso americano.
Ed è soprattutto il rapporto privilegiato con Israele, e la forte intesa personale con Benjamin Netanyahu, che hanno definito in modo netto l’impronta lasciata dall’amministrazione Trump in Medioriente. Si devono, infatti, alla presidenza Trump una serie di decisioni clamorose, dalla dichiarazione di Gerusalemme capitale di Israele, al riconoscimento della sovranità israeliana sopra le Alture del Golan che solidifica una indispensabile linea di difesa per lo Stato ebraico, dalla decisione di privare l’UNRWA del finanziamento americano, togliendo legittimità a una agenzia ONU che negli anni ha moltiplicato a dismisura il numero dei profughi palestinesi utilizzandolo come arma di ricatto, alla decisione di non considerare illegali gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ripristinando, di fatto la lettera del Mandato Britannico per la Palestina del 1922. A tutto ciò va aggiunto che, primo presidente americano post Accordi di Oslo, Trump è stato l’unico a mettere con le spalle al muro l’Autorità Palestinese, esibendone palesemente l’inaffidabilità e una debolezza politica reale, sempre nascosta dalle amministrazioni americane precedenti, le quali, senza alcuna eccezione, hanno persistentemente reputato l’organizzazione e il suo abusivo leader, Abu Mazen, autorevoli, se non unici interlocutori per raggiungere un accordo di pace con Israele.
Il Medioriente che lascia Trump è dunque una regione in cui si sono ridefiniti i rapporti di forza e le priorità, capovolgendo gli assetti precedenti, dove l’Iran, al momento, è fortemente indebolito, e Israele può godere dell’apertura di Stati musulmani con i quali i rapporti erano minimali o del tutto inesistenti. Un Medioriente in cui l’interventismo militare americano è stato calibratissimo, ma dove, nel caso dell’Iran, gli Stati Uniti hanno saputo rispondere con efficacia perentoria eliminando dalla scena in modo del tutto inaspettato, Qasem Soleimani, uno degli uomini simbolo del regime e mastermind dell’operatività terroristica regionale.
Un delicato equilibrio costruito in modo veloce e risoluto, che potrebbe essere altrettanto velocemente compromesso.