Editoriali

Il giorno in cui Israele ha vinto

Dalla nostra inviata a Gerusalemme, Rebecca Mieli

Sono tanti i momenti, a partire da quel 14 maggio del 1948, in cui Israele ha potuto festeggiare delle vittorie di natura politica, accademica o economica. Israele è una grande nazione e questo è chiaro a tutti, nonostante un territorio limitato e l’accanimento dei vicini arabi, ha costruito uno stato forte, un’economia competitiva, un sistema fresco, funzionante e democratico.

Ad Israele non manca nulla (ad eccezione del petrolio, forse). Nell’ultimo anno, registrando l’ennesima vittoria politica, Gerusalemme, grazie ad abilità politica e intelligenza, è riuscita addirittura a vincere il pregiudizio delle grandi nazioni arabe, che pur condividendo ancora una certa preoccupazione per il destino dei palestinesi, si sono convinte che Israele può essere un valido partner, se non altro per quanto riguarda la tecnologia, lo sfruttamento delle risorse idriche, l’intelligence.

Israele ha vinto molto più in un anno di quanto non avesse vinto nei precedenti quattro, quando l’amministrazione Obama, cosi imbevuta di terzomondismo e spirito di arrendevolezza nei confronti del terrorismo di matrice islamica, aveva per la prima volta rotto il patto non scritto di fiducia e amicizia con lo stato ebraico, appoggiando il JCPOA e dando, cosi all’Iran il via libera per ottenere tutti gli strumenti necessari per la nascita di un programma nucleare militare.

Mentre il mondo ha festeggiato l’avvicinamento tra occidente e la repubblica teocratica degli ayatollah, Israele ha continuato a ricevere le solite minacce senza riscontro, tentando, ormai senza più l’appoggio degli alleati storici, di riscoprire il proprio valore e di elaborare una nuova strategia. In poco tempo, grazie anche all’appetito territoriale sciita, il quale ha suscitato lo spavento del mondo arabo, Israele ha tessuto una rete di rapporti con i propri vicini con abilita notevole.

Dopo essersi guadagnato, con una fatica imponente tanto quanto il pregiudizio contro di sè, il rispetto di numerosi stati dell’Africa centrale, aiutati tanto nella lotta all’Ebola quanto nell’ambito del deficit idrico e in quello agricolo, dopo essersi guadagnato e il rispetto di una buona parte del Sud America, (di chi ne ha chiesto l’appoggio contro le FARC e contro la criminalità organizzata), Israele ha finalmente superato gli otto anni dell’amministrazione Obama. Tutto ciò nonostante la delusione iniziale e le pugnalate alle spalle provenienti dall’altro alleato storico, l’Europa – la quale tra le dichiarazioni propalestiniste della Mogherini e l’appoggio alle risoluzioni UNESCO in cui si afferma che non esiste legame tra il popolo ebraico, il Monte del Tempio e le tombe dei Patriarchi, ha perso completamente il senso della realtà.




Israele ha fatto, come sempre da prima della sua nascita, di necessità virtù, plasmando le politiche degli ultimi anni sulla base della più netta strategia militare “alla Sun Tzu”, tessendo reti con i “nemici dei nemici” e servendosi del servizio di intelligence più efficiente al mondo per prevenire la nuclearizzazione dell’Iran e per contastarne le aspirazioni egemoniche. Si tratta dello stesso spirito di determinazione che mosse i pionieri a trovare l’acqua nel deserto e a coltivarlo nelle condizioni più drammatiche e che ha portato la politica a trovare, nell’epoca dei tradimenti, una nuova schiera di alleati e una nuova narrativa che possa affrontare al meglio gli anni a venire.

Quello che mancava a Israele non è mai stata la vittoria, bensì il riconoscimento, da parte del mondo, della vittoria stessa. L’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme è una vittoria simbolica per Israele, perchè, di fatto, non afferma un cambiamento sostanziale o un ribaltamento di piani ma certifica semplicemente la realtà: Gerusalemme è la capitale di Israele, lo è dal 1948, e lo è spiritualmente e culturalmente da 3000 anni.

Ma la giornata di ieri rappresenta, forse come nessun altro avvenimento nella storia di questo grande piccolo paese, il riconoscimento di questa realtà da parte degli Stati Uniti, un amico ritrovato grazie all’elezione di Donald J. Trump. Si tratta di una ventata di aria fresca per la popolazione israeliana, che ha lottato decenni per sé stessa e per la difesa dell’Occidente senza mai ottenere una parola di appoggio da parte dei molti che hanno beneficiato per decenni dell’unico baluardo di democrazia nella regione.




Il giorno in cui Israele ha vinto di più non è un giorno di vittoria, ma un giorno di riconoscimento, di sostegno, appoggio e amicizia. E’ un giorno che molti hanno sognato, senza sperare che, per questo, si potesse inventare da zero una pace con un partner inesistente.  Il giorno in cui Israele ha vinto non ha nulla a che vedere con la guerra, non parla della fine degli scontri con i palestinesi, non riguarda la pace con gli stati arabi: il 14 maggio del 2018 verrà ricordato come il giorno in cui Israele ha finalmente identificato Gerusalemme con se stessa grazie al realismo dell’Amministrazione Trump, che ha riconosciuto e ufficializzato un’identità negata dagli interessi della comunità internazionale.

La verità storica non potrà più essere sottoposta al revisionismo delle istituzioni europee, né di chi, appoggiando il falso, ha pensato anche solo per un momento che Israele concedesse Gerusalemme a chi ha contribuito per decenni a negarne il legame indissolubile con il popolo ebraico.

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