Sette palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano ieri durante il secondo giorno della manifestazione organizzata da Hamas al confine di Gaza e Israele. Tentavano di introdursi in territorio israeliano, coperti dal fumo denso degli pneumatici bruciati.
Alla manifestazione, questa volta, secondo le stime ufficiali si sono presentate 20.000 persone, 10.000 in meno rispetto a venerdì scorso. L’entusiasmo sta calando, la decisa e ferma difesa di Israele dei suoi confini e i 16 morti (ma la cifra non è ufficiale) in campo palestinese di venerdì scorso, di cui 11 identificati come miliziani di Hamas, Fatah e della Jihad islamica, più i sette attuali, sono i dati con cui scontrarsi.
Lo scenario mediorientale non è più quello degli anni ’90 né quello del 2000, quando Arafat scatenò con un pretesto la Seconda Intifada che si sarebbe protratta fino al 2005, un anno dopo la sua morte. Oggi, nessuno stato arabo sunnita appoggia di fatto il terrorismo palestinese. Hamas è, come Hezbollah, Al Qaeda, e l’ISIS, considerato un problema da risolvere e non una carta da giocare da parte di paesi fondamentali per il sostegno alla causa palestinese, come l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania. In questo senso la convergenza nei confronti di Israele in funzione anti Iran della Casa di Saud, sotto l’impeto del giovane principe regnante Mohammed Bin Salman, ha relegato di fatto l’Autorita Palestinese e le sue rivendicazioni a un ruolo di rilevo assai marginale. Ma è almeno un decennio che il mondo arabo non arde più per quella che è percepita come una lotta residuale a ormai anacronistica contro uno Stato, quello ebraico, troppo potente, troppo essenziale per gli stessi equilibri di stabilità della regione. Non è un mistero che l’Arabia Saudita veda in Israele un argine alle minacce iraniane e dunque anche una garanzia per la sua stabilità insieme, principalmente, alla storica alleanza con gli Stati Uniti.
Un’altra cosa nota è che Abu Mazen è ormai al crepuscolo della sua leadership e incapace di gestire un possibile negoziato con Israele. Si attende il suo successore che ancora non si è manifestato. In ogni caso, l’anziano padre padrone dell’Autorità Palestinese non ha nessuna carta da giocare se non quella di attendere l’evolvere dei fatti, e nessuno è in suo favore. Il fallimento delle sue peregrinazioni in Europa per cercare un appoggio politico più concreto oltre a quello che decenni gli viene fornito economicamente è palese. Nessun attore internazionale può rimpiazzare gli USA al tavolo di eventuali negoziati, e la Russia di Putin non ha alcuna possibilità di farlo non avendo alcuna possibilità di scalzare gli USA dal loro ruolo storico di mediatori.
Hamas, dopo 11 anni di dominio sulla Striscia di Gaza ha un altro bilancio totalmente fallimentare da presentare. La famelicità del gruppo dirigente, la corruzione dilagante, la lotta intestina con Fatah, l’uso delle risorse economiche per migliorare la vita della popolazione dirottato quasi interamente a scopi militari, l’embargo di Egitto, Israele e i tagli sia alle forniture elettriche che ai fondi per gli stipendi dei militari, decretati da Abu Mazen come mezzo di ricatto per riguadagnare legittimità e potere all’interno dell’enclave, disegnano una situazione senza sbocco.
In questo contesto si iscrive la Marcia del Ritorno di venerdì scorso e di questo venerdì, che in teoria dovrebbe sfociare in una grande mobilitazione di massa il 15 maggio, giorno in cui l’ambasciata americana si sposterà da Tel Aviv a Gerusalemme e che si sovrappone con il giorno della Nakba, la “catastrofe”, il vessillo della vittimologia palestinese agitato da cinquanta anni, contro la nascita di Israele nel 1948.
La Marcia del Ritorno appassiona molto una parte dell’opinione pubblica occidentale, in modo particolare europea, nutrita da decenni di propaganda anti-israeliana e dai miti create da Mosca in combutta con gli stati arabi a fine anni ’60 secondo i quali Israele sarebbe uno Stato colonialista, razzista, nazista. Lo abbiamo visto ultimamente con l’abituale rappresentazione colpevolista di Israele data dalla maggioranza dei media per avere impedito lo sfondamento della barriera di confine tra Israele e Gaza e la penetrazione di jihadisti all’interno del proprio territorio. Nulla di nuovo, è il copione abituale che si recita tutte le volte in cui Israele ha l’ardire di difendersi da chi minaccia la sua sicurezza.
Tuttavia, questa narrazione gode di una vitalità solo apparente essendo ormai ampiamente sganciata dalla realtà che pretenderebbe di rappresentare. Si tratta, infatti, di una cristallizzazione ideologica che non è più al passo con gli eventi. La storia si sta muovendo altrove rispetto a un vecchio conflitto del tutto marginale per gli assetti mediorientali attuali. La partita si gioca su altre sponde, soprattutto su quella in cui il mondo arabo sunnita si trova unito a tutela della minaccia che rappresenta per i suoi interessi l’espansionismo iraniano.
In questo senso, la Marcia del Ritorno è fuori tempo massimo, si tratta del relitto di un passato che non è più in grado di proiettarsi nel futuro. Al di là dei morti che ha provocato e provocherà inevitabilmente in campo palestinese, delle dichiarazioni rituali di sostegno da parte araba (in realtà assai scarse) del sostegno dei propalestinesi occidentali (del tutto irrilevante) e di quello economico ma non bastevole dell’Iran, Hamas è confinato in una morta gora.