La politica che l’amministrazione Trump ha adottato in Medioriente ha preso corpo con il primo viaggio internazionale del neoeletto presidente americano a Riad, nel maggio del 2017. Era necessario riscaldare i rapporti con l’Arabia Saudita dopo il gelo subentrato con Barack Obama, giunto al culmine con la decisione di siglare con Teheran nel 2015 il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), l’accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto dal presidente uscente.
Durante la sua campagna elettorale, Donald Trump era stato esplicito sulla sua volontà di sottrarre gli Stati Uniti, da quello che qualificava iperbolicamente come “Il peggiore negoziato del secolo”. Non riuscì a farlo subito come avrebbe desiderato, in quanto, l’allora Segretario di Stato, Rex Tillerson e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, il Generale McMaster, lo frenavano. Quando, sia uno che l’altro vennero sostituiti, l’8 maggio del 2018, Trump annunciò finalmente l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo.
La linea dura nei confronti dell’Iran era ed è rimasta un punto fermo della politica americana sotto Trump relativa al Medioriente, e il viaggio di esordio del presidente americano sulla scena internazionale, aveva anche questo scopo, rassicurare Riad su questo tema.
I passaggi che sono seguiti da allora, con l’introduzione di sanzioni sempre più severe nei confronti di Teheran, hanno evidenziato una strategia chiara, quella della massima pressione, da esercitare economicamente. L’opzione militare non è mai stata presa in considerazione da Trump, nessun cambio di regime, e in questo senso, l’attuale presidente americano è in linea di continuità con tutte le amministrazioni che si sono susseguite dalla rivoluzione khomeinista del 1979. La rottura si è avuta solo nei giorni scorsi.
A seguito di un attacco a una base militare americana in Iraq da parte di una frangia di Hezbollah, costata la vita a un contractor americano e il ferimento di alcuni soldati, gli Stati Uniti hanno risposto con una ritorsione, uccidendo 25 miliziani di Hezbollah e di seguito uccidendo il potente capo delle Guardie Repubblicane iraniane, Qasam Soleimani, uno dei simboli del regime, considerato un eroe nazionale.
Precedentemente a questi fatti, gli Stati Uniti non avevano reagito quando, nel giugno scorso, l’Iran aveva abbattuto un drone americano, né quando i pozzi petroliferi sauditi furono colpiti a settembre da un attacco riconducibile a Teheran.
L’inerzia americana aveva lasciato pensare a molti che Trump non avesse alcuna intenzione di reagire in maniera determinata contro Teheran se non unicamente attraverso la pressione economica, uno strumento efficace solo fino a un certo punto, visto che la spavalderia iraniana non ne ha risentito.
L’uccisione di Soleimani ha determinato un cambiamento rilevante che, tuttavia, non rappresenta un cambiamento di rotta generale. L’intenzione dell’amministrazione Trump è di alleggerire progressivamente la presenza dei contingenti dispiegati in Medioriente, non quella di aprire un conflitto militare su larga scala investendo ingenti risorse sia economiche che umane, e lo si è visto chiaramente in Siria, con la decisione affrettata e dirompente di concedere a Erdogan un avanzamento regionale a discapito dei curdi. Il cambiamento consiste in un avvertimento chiaro a Teheran, ovvero, che sussiste una linea rossa che non può essere valicata: l’intangibilità dei soldati e degli operativi americani.
In questo senso, con una mossa tipicamente spiazzante, Trump ha ribaltato decenni di acquiescenza della Casa Bianca verso l’Iran, costata diverse centinaia di soldati americani, dalle vittime degli attentati di Beirut del 1983, ai cittadini americani uccisi in un attentato del 1996 in Arabia Saudita, al supporto armato e logistico fornito dall’Iran alle milizie sia sciite che sunnite operative in Iraq e in Afghanistan, costate migliaia di morti tra le truppe degli Stati Uniti.
La debole risposta iraniana (finora) alla morte di uno degli uomini simbolo del regime, consistita in un attacco missilistico senza vittime ad alcune basi americane in Iraq, mostra che esso ha compreso che attaccare gli Stati Uniti frontalmente, sia, sotto questa presidenza, un rischio alto.
Nessuno a Teheran vuole o può permettersi una guerra con gli Stati Uniti, essendo la potenza tecnologica e militare americana schiacciante, ma nemmeno Trump, per questione di impostazione ideologica e di consenso elettorale è propenso a una escalation bellica. Il discorso alla nazione pronunciato l’8 gennaio, ha evidenziato, in alcuni passaggi chiave (“Al popolo e ai leaders dell’Iran: Noi vogliamo che abbiate un futuro e un grande futuro, che meritate, di prosperità a casa e di armonia con le nazioni del mondo. Gli stati Uniti sono pronti ad abbracciare la pace con chiunque la cerchi”), la volontà, dopo l’uccisione di Soleimani, di raggiungere, con l’Iran una convergenza.
L’unica che interessa a Trump, consiste nel portare nuovamente l’Iran a un tavolo negoziale obbligandolo ad accettare le proprie condizioni.
Né gli Stati Uniti né Israele possono accettare che l’Iran si doti di armi nucleari. Soprattutto lo Stato ebraico non può consentirlo in alcun modo, ne va della sua sopravvivenza. Ma anche il regime vuole sopravvivere, non ha altro scopo se non quello di perpetuarsi. La sua volontà di potenza regionale, conseguenza della sua vocazione rivoluzionaria espansionista, si trova in questo momento a doversi misurare con un argine, che, se tentasse di forzarlo, gli potrebbe costare un prezzo troppo caro. La sua stessa ragione d’essere.
Donald Trump scommette sul cedimento, il regime, sulla sua capacità di resistere, oltrepassando Trump, quando non sarà più presidente.