A Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum, tra i maggiori esperti internazionali di Medio Oriente, ospite abituale de L’Informale, abbiamo chiesto, dopo quasi quattro mesi di guerra, il punto sulla situazione in corso.
In che modo, secondo lei, Israele dovrebbe condurre la sua guerra contro Hamas?
Spero che il governo israeliano si concentri su due questioni chiave, la distruzione del potere di Hamas e l’istituzione di un nuovo regime dignitoso composto da gazawi che possano governare Gaza sotto supervisione israeliana. Più brevemente: vinci la guerra e vinci la pace. Tutto il resto – politica interna, ostaggi, il traffico marittimo – conta meno.
Liberare gli ostaggi e rovesciare Hamas sembrano essere obiettivi reciprocamente incompatibili. È d’accordo?
Sì, del tutto incompatibili. Questa contraddizione evidenzia il sentimentalismo della politica israeliana, la morbidezza sotto il guscio duro. I nemici di Israele lo capiscono e quindi si concentrano sulla cattura dei suoi cittadini per poi scambiarli. Jonathan Pollard esagera quando chiede di “imprigionare, per metterli a tacere, alcuni membri delle famiglie degli ostaggi” se le loro richieste interferiscono con lo sforzo bellico, ma simpatizzo con la sua frustrazione. Vorrei che il governo israeliano presentasse la sconfitta di Hamas come il modo migliore per ottenere il ritorno degli ostaggi.
Un rapporto recente afferma che dopo 114 giorni di guerra, l’80% dei tunnel di Hamas sono ancora intatti. Ciò implica che l’IDF ha bisogno di molto tempo per poterli distruggerli tutti. Che implicazioni ne trae?
Noti il contrasto tra il 1967 e il 2023-24. Nel primo caso, una rapida vittoria israeliana sul campo di battaglia significò la ritirata egiziana e il pieno controllo di Gaza nel giro di poche ore; nella seconda bisogna contendersi ogni metro, e questo richiede mesi. Gli israeliani possono incolpare solo se stessi per avere lasciato Gaza nel 2005 e per avere permesso a Hamas di radicarsi come ha saputo fare. La longevità di questo conflitto danneggia la deterrenza di Israele e incoraggia i suoi oppositori. L’unico conforto dal punto di vista di Israele è che il 7 ottobre e le conseguenze che ne sono derivate hanno risvegliato il paese in merito al fallimento del suo sistema di sicurezza, incrementando le possibilità di poterlo migliorare.
Nell’intervista da lei data a L’Informale alla fine di novembre 2023 lei ha affermato che l’esito più probabile della guerra in corso sarà per Israele un “mezzo fallimento”. È tuttora di questa opinione?
Sì. La guerra ha ispirato interpretazioni molto diverse; si noti in particolare la visione ottimistica di Shay Shabtai. Tuttavia la previsione del “mezzo fallimento”, mi sembra corretta se si considera l’intera situazione, compreso Hezbollah, gli Houthi, la Turchia, l’Iran, la sinistra globale e oltre. Le ripercussioni di questo conflitto sono arrivate più lontano di quanto immaginassi, dalla presidenza dell’Università di Harvard al prezzo delle materie prime.
Caroline Glick ha scritto che “Per una intera generazione il rifiuto del concetto stesso di vittoria è stato il Santo Graal dello Stato Maggiore [di Israele]”. In che misura ha ragione?
Caroline è abile con le parole. Questo punto di vista è al centro del mio prossimo libro, Israel Victory: How Zionists Win Acceptance and Palestines Get Liberated, ma lo direi in modo meno forte. Evitare la vittoria non è il Santo Graal dello Stato Maggiore, ma la postura difensiva che ha introiettato. Può essere modificata.
La Glick, Efraim Karsh, Mordechai Kedar e Martin Sherman concordano tutti sul fatto che la soluzione dei due Stati è pericolosa e defunta. È d’accordo?
Niente affatto. Considero uno Stato palestinese quasi inevitabile nel lungo periodo. Pertanto stanno combattendo una battaglia di retroguardia senza speranza. Invece di opporsi alla soluzione dei due Stati, li invito a unirsi a me nel garantire che essa abbia luogo solo dopo che i palestinesi avranno dimostrato, in modo prolungato e coerente, di accettare lo Stato ebraico di Israele – in altre parole, una volta che gli israeliani saranno stati convinti della sconfitta dei palestinesi. Naturalmente, è un esito lontano generazioni. Mettiamo l’esito in sospeso fino ad allora.
Se Israele non distruggerà Hamas, Hamas rivendicherà la vittoria, e si presenterà come il principale leader antisionista, il che incoraggerà Hezbollah e l’Iran, portando a un’altra guerra. Anche lei è di questa idea?
Sì, nella misura in cui Hamas sarà in grado di rivendicare plausibilmente il successo, ciò aumenterà la fiducia degli islamisti e comporterà ulteriori problemi per Israele. È da notare che Hamas ha già rivendicato la vittoria: il Wall Street Journal riporta che Yahya Sinwar, la mente del massacro del 7 ottobre, “ha detto ai mediatori che Hamas ha sostanzialmente vinto la guerra”. Ciò non sorprende, poiché i leader i leader arabi lo fanno abitualmente, indipendentemente dal risultato effettivo.
L’Amministrazione Biden mette in guardia Israele dalla morte di civili, gli chiede di fornire aiuti e cerca di limitare le sue azioni in Libano. Per Israele non è giunto il momento di diventare più autonomo dagli Stati Uniti?
Naturalmente gli israeliani vorrebbero liberarsi dal peso delle pressioni americane, ma il legame USA-Israele è il rapporto familiare per eccellenza della politica internazionale e tale resterà. Gli americani interferiscono nella politica israeliana, gli israeliani interferiscono nella politica statunitense. Questa realtà di lunga data presenta aspetti positivi e negativi per entrambe le parti. Devono accettarlo, lavorarci sopra, trarne il meglio.
Quanta importanza attribuisce alla decisione della Corte Internazionale di Giustizia secondo cui Israele deve “adottare ogni misura in suo potere per prevenire di commettere tutti gli atti” in grado di causare gravi danni fisici o mentali o uccidere i palestinesi”?
Questa sentenza è l’ennesima tappa di un vasto scontro tra le forze pro e anti-Israele, ciascuna delle quali cerca di portare l’opinione pubblica dalla propria parte. Ma ritengo sopravvalutata l’importanza di questa battaglia. In tutto il mondo, la maggior parte delle persone che hanno a cuore la politica internazionale hanno ormai deciso la loro posizione rispetto a Israele e ai palestinesi, quindi il bacino degli indecisi diventa di giorno in giorno più piccolo. Pertanto non penso che una decisione come quella della Corte Internazionale di Giustizia – o il voto 100-0 del Senato degli Stati Uniti per mostrare solidarietà nei confronti di Israele – abbia molta importanza. La lotta sul campo di battaglia conta molto più delle risposte internazionali riguardo ad essa.
Traduzione di Niram Ferretti