E’ passata agli annali la battuta di Donald Rumsfeld, ex Segretario alla Difesa di George W. Bush, quando, nel 1983, dopo un incontro con Saddam Hussein a Baghdad disse, “E’ un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana”. Affermazione in cui si riassumeva icasticamente un’idea base della Realpolitik; i nemici dei miei nemici sono miei amici. Così è stato in tempi recenti per Mohammed bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita, de facto colui che la governa nonostante il re sia sempre l’anziano padre Salman.
L’asse tra Donald Trump e il giovane leader musulmano aveva un ben preciso obbiettivo, quello di rafforzare i legami con la Casa di Saud, dopo la lunga parentesi di gelo con gli Stati Uniti, a seguito della decisione di Barack Obama di negoziare con l’Iran.
La ricollocazione dell’Iran come l’attore più pericoloso sulla scena mediorietale, messa in atto dall’amministrazione Trump, obbligava il riavvicinamento all’Arabia Saudita e iniziava a gettare i semi per la successiva fioritura di rapporti tra una parte del mondo arabo sunnita e Israele, culminati con gli Accordi di Abramo del 2020. Quando, nell’ottobre del 2018, venne barbaramente trucidato a Istanbul il giornalista saudita espatriato, Jamal Khashoggi, da tempo inviso a Mohammed bin Salman per le sue critiche al regime saudita, i riflettori si puntarono sul giovane principe. Sotto l’amministrazione Trump, la CIA iniziò un indagine che si concluse con un rapporto che indicava il principe saudita come come colui che aveva dato ordine al commando che aveva poi ucciso Khashoggi, di recarsi a Istanbul con l’obbiettivo di colpirlo. Dal rapporto, tuttavia, non emergeva se il principe saudita avesse stabilito di farlo rapire o assassinare.
L’amminstrazione Trump non rese il documento pubblico e minimizzò le accuse rivolte all’alleato saudita. “Il nostro figlio di puttana” doveva essere salvaguardato a fronte di un figlio di puttana ben maggiore, l’Iran. Nel mentre, buona parte della stampa liberal cavalcò il caso attaccando Trump e presentando Khasshogi come un campione di libertà, dimenticando i suoi legami passati e presenti all’epoca del suo assassinio con la Fratellanza Musulmana, di cui era stato un membro e che continuava a sostenere sulle pagine del Washington Post, uno dei giornali per il quale scriveva. Siamo così giunti alla decisione odierna dell’Amministrazione Biden di rendere pubblico il report della CIA che l’Amministrazione Trump aveva tenuto chiuso in un cassetto.
Si tratta di un passo significativo che segue quello di congelare l’erogazione di una fornitura di armi all’Arabia Saudita e di non volere più offrire supporto alla guerra che i sauditi intraprendono in Yemen da sei anni contro le milizie Houti sostenute dall’Iran.
Tutto ciò in nome della difesa dei “diritti umani”, di cui, certamente l’Arabia Saudita, in buona compagnia con la maggioranza degli Stati musulmani, non è un campione. Si tratta di mosse assai azzardate, poichè l’indebolimento del rapporto strategico regionale che gli Usa intrattengono con la Casa di Saud e che inizia nel 1945, è indubbiamente un assist fornito all’Iran. L’attacco aereo della settimana scorsa in Arabia Saudita contro un aereo civile da parte dei ribelli Houti, lo dimostra chiaramente. Il nuovo Segretario di Stato, Anthony Blinken, subito dopo l’attacco ha affermato che gli USA non staranno a guardare mentre i sauditi vengono aggrediti, evidenziando l’inattuabiità di una politica basata su un colpo al cerchio e uno alla botte.
Se si vogliono salvaguardare i diritti umani, e se la neo-amministrazione Biden intende impugnare questo stendardo morale per affermare una sorta di tutela etica degli Usa sul resto del mondo, avrà sicuramente assai da fare, e molto in Medioriente, non solo in Arabia Saudita, ma in Egitto, dove governa un altro “figlio di puttana” necessario tuttavia all’equilibrio geopolitco regionale che non è costruito sugli ideali, ma su necessità molto concrete, fatti brutali.
L’Amministrazione Trump lo aveva molto presente, fondando le sue decisioni in Medioriente su un realismo robusto che, necessariamente, imponeva di chiudere un occhio sull’abuso dei diritti umani, di cui, regionalmente, l’Iran detiene il primato.
Nessuno pensa che Mohammed bin Salman sia un campione di virtù e un esempio di leader illuminato, nonostante qualche timida riforma intrapresa all’interno del suo regno, ma cercare di indebolirne l’immagine prendendolo di mira fa solo il gioco di Teheran.