“La Turchia ha compiuto un grande passo sulla strada dello sviluppo, raggiungendo un nuovo successo” ha twittato Izzet Er-Resa, uno dei leader di Hamas, inviando le sue congratulazioni al presidente turco Erdoğan, al primo ministro Binali Yildirim e ai leader dei partiti politici turchi.
L’Olp, Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dal canto suo non ha mancato di esprimere la propria felicità per il voto, sostenendo che il risultato del referendum potrà contribuire alla stabilità della Turchia e a garantire maggior sostegno alla causa palestinese.
L’entusiasmo palestinese per la vittoria di Erdoğan, sia pur striminzita nei numeri (il 51% ha votato Sì alla sua riforma), è comprensibile. Il responso delle urne consegna al nuovo “sultano” un potere spropositato, ben al di là di una normale repubblica presidenziale, senza sufficienti garanzie di contrappesi e controlli reciproci tra potere esecutivo (il presidente) e potere legislativo (il parlamento). Un percorso già avviato con l’introduzione dell’elezione diretta del presidente nel 2014.
Recep Tayyip Erdoğan ha dimostrato di avere le idee chiare sul sistema presidenziale da lui auspicato, sostenendo nel discorso di fine anno del 2015 che «Ci sono esempi in tutto il mondo. E ci sono anche esempi nel passato, se si pensa alla Germania di Hitler, è possibile vederlo».
La riforma costituzionale, approvata ieri, elimina la figura del primo ministro e riduce sensibilmente i poteri del parlamento. In ossequio al presidenzialismo della Germania di Hitler.
Non è solo questo però ad entusiasmare Hamas e l’Olp. L’atteggiamento del “Sultano” nei confronti di Israele è sicuramente di buon auspicio per i leader palestinesi.
Nel gennaio 2009 a Davos, in Svizzera, durante la Conferenza del World Economic Forum, l’allora primo ministro turco si è rivolto all’omologo israeliano Shimon Peres con queste parole: «Capisco che vi possiate sentire un po’ in colpa (…) Quanto ad ammazzare, voi sapete ammazzare molto bene. Sono bene al corrente che avete ammazzato bambini sulle spiagge» prima di essere interrotto dal moderatore e abbandonare infuriato la conferenza per protestare contro “l’eccessivo spazio” dato a Peres.
Un anno e cinque mesi dopo, nel maggio 2010, il famoso incidente della “Freedom Flotilla”: la nave battente bandiera turca “Mavi Marmara”, in testa ad una flottiglia di attivisti filopalestinesi, era stata intercettata dalla marina israeliana mentre tentava di violare il blocco di Gaza. Quando i soldati delle forze speciali israeliane si sono calati dagli elicotteri a bordo della nave, sono stati aggrediti dagli attivisti armati di bastoni, coltelli, catene e sbarre metalliche. La reazione dei militari, dieci dei quali feriti tra cui due gravemente, ha provocato 9 morti tra gli aggressori. Anche in quell’occasione Erdoğan non le ha mandate a dire, definendo “terrorismo di Stato” il raid sulla nave turca che stava violando il blocco, con attivisti armati fino ai denti e pronti ad ingaggiare uno scontro con i commando israeliani. Il premier turco ne ha approfittato per accusare Israele di rappresentare “la principale minaccia per la pace regionale“, arrivando a chiedere che gli impianti nucleari israeliani fossero ispezionati dall’AIEA (Associazione Internazionale per l’Energia Atomica) e ad accusare il governo di Gerusalemme di aver trasformato Gaza in una “prigione a cielo aperto“.
Nel 2013 è tornato alla carica, definendo il sionismo un “crimine contro l’umanità” paragonabile a islamofobia, fascismo e antisemitismo.
Nel 2016 Israele e Turchia hanno firmato un accordo di riconciliazione e Gerusalemme ha espresso ufficialmente rammarico per la morte dei nove attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara. I precedenti del Sultano turco, però, continuano ad essere musica per le orecchie dei dirigenti di Hamas e dell’Olp